Andrea Branzi
[Thinking] [diid 59_15]
Durante gli anni Sessanta, con l’affiorare di una crescente complessità e conflittualità sociale, è emersa con evidenza la crisi dell’unicità del progetto e si sono separate la pianificazione, l’architettura e il design come scienze concorrenti a realizzare un nuovo modello di organizzazione dei centri urbani, sullo sfondo di un apparente cambiamento delle comunità degli uomini. Il bilancio della successiva ed esclusiva autonomia e autoreferenzialità delle tre discipline ha generato un aperto conflitto che non ha consentito l’avanzare e lo sviluppo di soluzioni in grado di emancipare coerentemente la città contemporanea attraverso i linguaggi della modernità. È necessario, ora, che questa “conflittualità” venga archiviata affinché il progetto nelle sue diverse scale diventi tollerante, con meno rivendicazioni “personali”, ma proiettato ad osservare la problematicità dei fenomeni urbani e dell’abitare come parti di un insieme che non richiede più opposizioni ma intelligenti
confronti.
#divergenza #convergenza #tolleranza #nuovodibattito #progettoaperto
Nell’epoca delle grandi fluidificazioni, dove destra e sinistra, tempo libero e tempo di lavoro, territori commerciali, tendono a sfumare i loro confini, ritengo sia giunto il momento di riflettere sulle contrapposizioni disciplinari che attraversano la cultura del Progetto; da una parte l’Urbanistica, dall’altra l’architettura e dall’altra ancora il design; tre diverse professioni e tre modi diversi di vedere, interpretare e progettare il mondo.
Non si tratta certamente di una alleanza facile da ricostruire; ma nella storia umana le cose facili non sono mai esistite.
C’è stato un tempo, nel secolo scorso, durante il quale si riteneva che il progetto urbano, l’architettura e il design concorressero spontaneamente a realizzare un futuro nell’ordine e nella razionalità; questa tesi ottimista cominciò a entrare in crisi durante gli anni Sessanta, quando la crescente complessità e conflittualità sociale, e un mercato invasivo (del tutto fuori controllo) dimostrarono che l’ipotesi di una armonia interna al progetto moderno era una utopia impraticabile. Le tre discipline del progetto affermarono ciascuna la propria centralità e la propria autonomia: città, architettura e l’universo merceologico si posero in aperto conflitto tra
di loro, guadagnandosi un largo spazio di autonomia.
Durante questi cinquanta anni il progetto urbano, basato su una impraticabile teoria funzionale e ambientale, ha dimostrato di non essere più in grado di gestire un processo espansivo incontenibile e oggi altro non è che un debole strumento di ordine locale, che a stento può ritagliarsi singoli frammenti di territorio, all’interno di un processo metropolitano globalmente incontrollabile. Dall’altra parte l’architettura ha tratto vantaggio da questa impossibilità di armonizzarsi con il contesto ambientale, dando luogo a singole opere isolate in aperta e spettacolare contrapposizione con un territorio privo di identità.
A sua volta il design, all’interno di una civiltà merceologica come la nostra, è divenuto il protagonista indiscusso della scena urbana e della vita quotidiana.
Oggi questo tipo di conflittualità di ruolo ha fatto il suo tempo; ognuna di queste discipline, in mancanza di una teoria critica adeguata, ha vissuto questo stato di assoluta libertà operativa e trionfante egoismo, nutrendosi soltanto della crisi delle discipline consorelle; come tre zitelle che pur convivendo nella realtà del mondo, continuano a insultarsi con acrimonia. Ciò che un tempo costituiva una legittima libertà, è diventata una gabbia, dentro la quale tutto si può fare perché tutto è legittimo e tutto è accettato, perché mancano punti e occasioni di confronto.
Il progetto urbano, basato su quadri di valore datati a ottanta anni fa, sovrastato da una congestione crescente del traffico, non riesce a gestire i servizi territoriali adeguati. Le opere monumentali delle archi-star sono nella gran parte costituite da tipologie degli spazi interni assolutamente tradizionali. Il design si espande in tutto il mondo, ma non riesce a produrre scenari che non siano quelli del mercato del lusso e del superfluo.
Questa situazione di crisi generale del progetto può continuare all’infinito; ma anche l’infinito ha un limite, oltre il quale perde significato e diventa un “nulla”, una guerra tra fantasmi. Nelle strutture universitarie le tre discipline si contendono un potere esclusivamente accademico, e sembrano funzionare come biciclette a cui si è rotta la catena: fuori dal mondo, pedalano a vuoto. Questa situazione è il risultato evidente di una società che ha perduto il controllo del proprio mito di Modernità e del suo indotto (e non poteva che essere così); lo svuotamento ideologico della politica completa questo stato di cose, dove la libertà anarchica una volta raggiunta
perde di significato (e non poteva che essere così). Le forze in campo sono numerose ma la loro energia viene progressivamente vanificata da contrapposizioni disciplinari che non riescono a trovare qualsiasi sinergia o collaborazione; ciascuna di loro sembra trovare la propria ragione di essere dalla contrapposizione polemica con le consorelle del progetto.
Ma se è esistita, a partire dagli anni Sessanta, una ragione storica che aveva il merito di superare l’utopia paralizzante di una modernità unidirezionale, oggi i tempi sono cambiati: la globalizzazione dimostra che il mondo occidentale è attraversato da un baratro di valori, che non siano quelli del commercio e del guadagno. La crisi economica non è una condizione permanente né un incidente di percorso, ma un paragrafo importante della Legge del Capitalismo.
Il disagio culturale, l’incapacità politica, la crisi delle discipline, non sono che il corollario di questa Legge. Nella sola Milano esistono tre Facoltà (o Scuole) del progetto che si fanno concorrenza; se attraverso una operazione di ingegneria genetica l’Ateneo riuscisse a accorparle, riaprendo contemporaneamente una maggiore collaborazione con le Facoltà Scientifiche, probabilmente la somma di queste debolezze parziali potrebbe dare ossigeno a una situazione stagnante, riaprendo un dibattito interno, oggi del tutto assente. Del resto la chimica (e non l’aritmetica) insegnano che spesso 1+1=3…
Questa guerra di religione tra le diverse discipline non si risolve con una falsa pacificazione, ma al contrario facendo convergere in un unico sito quelle energie conflittuali che oggi sopravvivono isolate e non riescono né a incontrarsi né a confrontarsi, alimentandosi del proprio isolamento intellettuale e operativo.
Un ritorno a una convivenza almeno condominiale produrrebbe una sorte di pace armata, uno choc salutare, in grado di rimescolare le carte e produrre un corto circuito, un campo magnetico attivo, insieme a uno scenario più completo delle problematiche che agitano l’universo del progetto e insieme con questo l’attuale condizione umana.
Tutte le Guerre Sante sono il risultato dello scontro tra le religioni monoteiste, che adorando un solo Dio, si arrogano il diritto di aggredire il diverso, l’eretico, il blasfemo; la questione allora è quella di bay-passare questo schieramento rigido e mono-teologico per aprire le porte a un Politeismo più elastico, dove le diverse interpretazioni del mondo si confrontano senza rivendicare una propria supremazia assoluta, riaprendo un confronto vitale, che non punta a stabilire gerarchie definitive ma piuttosto un confronto dialettico, oggi del tutto assente.
I recenti fatti di terrorismo non sono che il risultato di una logica analoga, dove ciascuna delle parti non vuole e non può accettare l’esistenza dell’altro e ripropone un ordine monologico impraticabile e autodistruttivo. Il mondo del progetto oggi non è dunque che un modello in scala di una più vasta intolleranza che ci circonda, di un rigidità mentale, senile, paradossale, che cerca di ripristinare un ordine impraticabile, tragico e insieme comico, dove le diverse posizioni teoriche non sono che la difesa di un potere accademico privo di reali contenuti epistemologici.
I tempi cambiano e insieme con questi anche il livello di testosterone delle diverse aree disciplinare; sarebbe l’ora di cominciare a vedere le cose con maggiore tolleranza, più intelligenza e più curiosità, togliendosi i paraocchi che ci permettono di vedere soltanto una piccola porzione di un mondo molto più vasto.
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
7 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
4 Novembre 2017
3 Novembre 2017
diid disegno industriale | industrial design Book Series approfondisce l’evoluzione e gli esiti della ricerca e sperimentazione progettuale e teorica nel campo del design. Ogni numero accoglie lo sviluppo di un tema rappresentativo del dibattito che attraversa la fenomenologia del sistema prodotto nell’estensione tecnica e culturale. A comporre questo racconto a più voci e con diversi punti di vista sono chiamati ricercatori, studiosi e professionisti della scena nazionale e internazionale che compongono il Centro Studi diid.