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Mighty Mouse

Mighty Mouse

Alex Soojung-Kim Pang

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Mighty Mouse

 

Nel 1980, la Apple Computer chiese ad un gruppo di ragazzi che avevano appena ultimato il Product Design Program a Stanford di prendere un dispositivo da 400 dollari e renderlo affidabile, economico e producibile in massa. Il loro lavoro ha trasformato il concetto di personal computing.

 

Dean Hovey era smanioso. La sua giovane azienda di design di prodotto, la Hovey-Kelley Design, lavorava da un paio d’anni su progetti commissionati dalla Apple Computer, ma voleva sviluppare prodotti completi, non solo case e tastiere. Hovey era andato a raccontare alcune idee al co-fondatore della Apple, Steven Jobs. Ma prima di riuscire ad aprir bocca, il leggendario pioniere dell’high-tech lo interruppe.

“Fermati, Dean”, Hovey ricorda che Jobs gli disse. “Quello di cui vi dovete occupare voi ragazzi, quello che dobbiamo fare assieme, è costruire un mouse”. Hovey era sbalordito. Un cosa? Jobs gli parlò di un incredibile computer, nome in codice “Alto”, che aveva appena visto al Centro di Ricerca di Palo Alto della Xerox (PARC).

All’inizio degli anni Ottanta, la maggior parte dei computer (inclusi quelli Apple) richiedevano agli utenti di memorizzare dei comandi di testo per eseguire le funzioni. L’Alto aveva un’interfaccia utente grafica – un mondo simbolico fatto di piccole immagini di cartelle, documenti ed altre icone – che gli utenti navigavano attraverso un dispositivo portatile chiamato mouse. Jobs spiegò che la Apple stava lavorando su due computer, denominati Lisa e Macintosh, che avrebbero immesso nel mercato quel tipo di tecnologia. Il mouse avrebbe contribuito a rivoluzionare i computer, rendendoli più accessibili alla gente comune.

“Quando mi sono chiuso alle spalle quella porta”, ricorda Hovey, (’78, MS ’85) “ero pronto a cambiare il mondo”.

C’era solo un problema: un mouse commerciale basato sulla tecnologia Xerox costava 400 dollari, spesso e volentieri presentava guasti tecnici ed era quasi impossibile da pulire. Quel dispositivo – un discendente dell’originario mouse per computer inventato da Douglas Englebart all’Istituto di Ricerca di Stanford all’inizio degli anni Sessanta – era un capolavoro di tecnologia highconcept, ma anche un prodotto senza speranza. Jobs voleva un mouse il cui prezzo di fabbricazione fosse compreso tra i 10 e i 35 dollari, che sopravvivesse all’uso quotidiano e funzionasse sui suoi jeans. “Avevamo ipotizzato che Steve seguisse una dieta troppo povera di carne”, dice Jim Sachs, uno dei soci fondatori della Hovey-Kelley, “ma per 25 dollari l’ora avremmo disegnato anche un tostapane ad energia solare, se ce lo avesse chiesto”. Probabilmente il tostapane sarebbe stato più facile.

Jobs voleva che la Hovey-Kelley prendesse un prodotto tecnologico sviluppato da alcune delle più acute menti della Silicon Valley, ne migliorasse enormemente l’affidabilità e ne diminuisse i costi di oltre il 90 %.

Lo fecero. L’evoluzione del mouse “dal laboratorio al salotto”, come lo descrive uno di questi progettisti, non è particolarmente nota – persino alcuni fan della Apple non ne sono a conoscenza – ma la dice lunga sulle personalità dei suoi designer, sul programma di Stanford che li aveva formati e persino sulla storia della Silicon Valley. Tutti sanno che l’Università ha contribuito a dar forma alla regione, ma la sua influenza è spesso descritta nei termini di grandi individui quali Frederick Terman, di invenzioni specifiche come il klystron o di un incidente geografico. La storia del mouse dimostra l’impatto di uno specifico programma accademico – quello di design del prodotto – sulla Valley.

Quando fu chiesto alla Hovey-Kelley di progettare il mouse per la Apple, l’azienda era una start-up con due anni di vita. Hovey e David Kelley, così come la maggior parte degli altri primi soci, si erano incontrati tra i banchi di Stanford all’interno del Product Design Program. Un programma interdisciplinare che combina ingegneria meccanica, arte e, spesso, matematica, fisica e psicologia, fondato nel 1958 da Robert McKim. McKim, (’48), era un designer industriale che si ribellò alla “malattia dello styling” che vedeva diffusa nel suo settore. Voleva che i suoi studenti andassero a fondo, che riflettessero sull’estetica, la tecnologia, gli utenti e l’economia. “Bob McKim stava cercando di creare dei piccoli Leonardo da Vinci, gente in gamba in molti settori e abbastanza diversificati da creare un prodotto totalmente nuovo”, dice Hovey.

Gli anni post-Sputnik erano un periodo adatto a fare il ribelle che porta avanti una causa a Stanford; i fondi federali per la ricerca entravano in abbondanza e amministratori ambiziosi quali l’allora rettore Terman (’20, Engr. ’22), e il Preside di Ingegneria, Joseph Pettit (Engr. ’40, PhD ’42), potevano permettersi di tenere in vita dipartimenti poco comuni. “C’è sempre spazio in un’università per un programma nonconformista”, dice McKim. La sua fama di personalità originale consentì al programma di penetrare velocemente in nuove aree.

L’invenzione del microprocessore nel 1974 aprì la strada a nuove possibilità di combinare l’elettronica con il design meccanico, persino a nuovi modi di pensare la relazione tra la forma di un prodotto e la sua funzione. Il collega di McKim, Larry Leifer (’62, MS ’63, PhD ’69), tenne un corso sui prodotti intelligenti” per esplorare questo ambito; Kelley (MS ’78), e Sachs (MS ’79), furono tra i suoi primi assistenti a supportarlo nell’insegnamento.

McKim si guadagnò non solo il sostegno dei suoi superiori, ma anche l’affetto degli studenti. “Se McKim fosse stato un nazista, ora sarei diventato un artista nazista”, dice Kelley. I colleghi di ingegneria di McKim, tuttavia, non condividevano necessariamente la sua passione. “I miei colleghi mi trovavano piuttosto strano”, dice McKim. “E il dipartimento di design in effetti era un po’ strano, e a loro piaceva esserlo”.

Quella stranezza lo indirizzò verso alcune strade sorprendenti, ma produttive. Negli anni Sessanta, McKim partecipò a degli studi sull’impatto della psichedelìa sulla creatività, contribuì alla stesura di un libro intitolato “Altered States of Consciousness” (“Stati di coscienza alterati”) e fondò una società di strumentazione medica. Questa combinazione di spirito imprenditoriale e controcultura sarà anche stata inusuale nell’ambito accademico, ma mise il programma di design di prodotto in sintonia con l’industria emergente dei personal computer, i cui leader miscelavano ugualmente radicalismo culturale e alta tecnologia. Entrambi i gruppi credevano fermamente che il genio trasandato potesse avere successo laddove la competenza convenzionale non funzionava, entrambi preferivano le nottate trascorse nelle officine meccaniche o in laboratorio alle riunioni, ed entrambi si consideravano degli outsider, tanto rispetto al mondo del design convenzionale quanto all’America aziendale.

Quella predilezione per le nottate di lavoro tornò utile nella primavera del 1980, quando gli uffici della Hovey- Kelley fervevano letteralmente di attività. Hovey, ufficiosamente a capo del progetto mouse, dice di aver “messo insieme” il primo prototipo concettuale in un fine settimana – utilizzando la sfera di una flaconcino di deodorante roll-on marchiato Ban e una burriera acquistata al Walgreens (la più grande catena di farmacie americana – NdT, “il negozio di pezzi per il mouse”, come lo definisce lui) di Palo Alto. Non si trattava dell’unica fonte di componenti anomala: un mattino, sua moglie scoprì che il frigorifero non funzionava più perché alcune parti del motore erano state utilizzate per un prototipo del mouse.

Per non essere da meno, Kelley estrasse la leva del cambio dalla sua BMW nella fase di sperimentazione delle forme del mouse. “Abbiamo tutti fatto la stessa cosa”, spiega Sachs, che, con Rickson Sun, si è concentrato sui componenti elettrici ed ottici.

“Sacrificavamo circuiti, sacrificavamo qualunque cosa. L’idea di progettare [ufficialmente] qualcosa e di farsi fabbricare gli oggetti con le caratteristiche tecniche desiderate avrebbe richiesto un processo troppo lungo, lento e costoso”. Meglio “smontare qualcos’altro, o trovare qualcosa di simile, e incollare i vari pezzi o tagliarli in due”.

Questo approccio è un esempio da manuale del “prototipo rapido”, o della costruzione di qualcosa in maniera veloce per testare le proprie idee, affidandosi più ai modelli e ai materiali che a specifiche tecniche formali. Un metodo che, essenziale per il programma di design del prodotto, ben si confaceva a liberi professionisti e start-up ricchi di immaginazione ma squattrinati. E favoriva una immensa concentrazione.

Come spiega Hovey: “Quando sei in quella modalità in cui stai costruendo qualcosa e hai bisogno di un pezzo, pensi, “O mi fermo e aspetto, o vado avanti e distruggo [il frigorifero]. Ma ci vorranno 20 dollari per ripararlo, non è una tragedia. Quando sei in preda alla passione per la progettazione, lo fai e basta”.

I designer trassero spunto anche da ambiti inaspettati. L’azienda aveva messo su un’officina in un ufficio da 90 dollari al mese al secondo piano di un edificio nel centro di Palo Alto (e come ricorda Kelley, “eravamo spaventati da morire, a dover pagare 90 dollari al mese”). I pavimenti irregolari dell’edificio un po’ attempato contribuirono al primo progresso di Hovey per semplificare il design del mouse. Stava cercando di eliminare il pezzo di precisione utilizzato dal mouse PARC della Xerox per spingere la sfera sul tavolo.

Mentre Hovey guardava le sfere che rotolavano sul tavolo appena inclinato, ebbe un’intuizione: “È proprio quello che voglio fare io: voglio che rotoli senza scivolare”. Non era necessario spingere la sfera; galleggiava. “Quasi non serviva che la toccassimo per ottenere le informazioni sulla direzione in cui si muoveva” dice Hovey.

Sachs, che aveva seguito alcune lezioni di ingegneria elettrica durante il corso di laurea, progettò un sistema di codificatore ottico che utilizzava delle rotelle, dei diodi luminosi e dei fototransistori per seguire la traiettoria del movimento della sfera; ciò diminuì il numero delle parti mobili del mouse abbassandone i costi. Sun (’78, MS ’78), aggiunse una ruota di rinvio con una rotella caricata a molla, per garantire che la sfera e i codificatori restassero in contatto. A fine primavera, “avevamo risolto già parecchi problemi” dice Sachs. Ma i progettisti temevano di aver “creato qualcosa che richiedeva una tale precisione da non poter essere probabilmente prodotto in massa”. Da studenti, erano stati spesso assegnati loro esercizi difficili, persino pericolosi: costruire un dispositivo alla Rube Goldberg, progettare un veicolo monoruota per una gara lungo Sand Hill Road. Il mouse era divenuto un analogo insieme di sfide inusuali.

L’elettronica era in genere costosa e ad alta tolleranza, oppure economica e a bassa tolleranza; il mouse doveva essere economico e preciso. Perfino il cavo presentava dei problemi: i cavi elettrici normalmente erano o flessibili o resistenti, ma al mouse ne serviva uno che fosse entrambe le cose.

I progettisti avevano bisogno di qualcosa che impedisse a queste necessità contraddittorie di far rompere il mouse. Jim Yurchenco propose di collegare le parti elettroniche e quelle ottiche ad una singola piattaforma in plastica, che le mantenesse nel corretto allineamento, proteggendole dagli urti. Yurchenco (MFA ’75), aveva studiato scultura dopo la laurea e la sua esperienza nel creare forme tridimensionali ne fece ovviamente la persona adatta a progettare questa piattaforma, che fu soprannominata cassa toracica. (Quasi tutte le parti del mouse avevano nomignoli usati da chi ci lavorava: il rivestimento esterno era la pelliccia, il filo la coda, ma la cassa toracica fu l’unico che rimase.) Yurchenco lavorò quasi esclusivamente nella sua mente – un tour de force di capacità di visualizzazione in 3-D, secondo altri che parteciparono al progetto. Non solo le minuscole parti avevano specifiche caratteristiche tecniche, ma Yurchenco doveva fare in modo che gli operai alla catena di montaggio le agganciassero sulla cassa toracica. La cassa toracica rese ancor più d’avanguardia il settore del tooling e dello stampaggio a iniezione. “C’erano moltissimi minuscoli accessori da stipare in uno spazio estremamente ristretto” dice Yurchenco, “e costruire uno stampo all’altezza era complesso. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere prima”. Ma una volta realizzato lo stampo, la cassa toracica poteva essere prodotta in massa, a tolleranze molto limitate, per pochi centesimi al pezzo.

Yurchenco disegnò anche una ghiera alla base del mouse, che gli utenti potevano rimuovere per estrarre la sfera e pulire le rotelle senza entrare in contatto con le parti elettroniche.

In estate il gruppo passò ad occuparsi della progettazione esterna del dispositivo. Kelley e Douglas Dayton realizzarono dei prototipi in legno o plastica, che andavano da mouse quadrati ad altri a forma di cuneo, fino ad uno completo di “due occhietti, come un topo”, ricorda Kelley. “Apple non ne volle sapere”. Dopo aver condotto degli user test , Dayton (MS ’79), e il progettista della Apple Bill Dresselhaus (MS ’74), crearono il design esterno definitivo. La Apple inoltre decise di ridurre il numero di pulsanti da tre a uno, dopo aver scoperto che gli utenti facevano fatica a ricordare a quale pulsante associare quale comando. Il mouse fu ultimato all’inizio del 1981. Naturalmente, i progettisti lo mostrarono a Bob McKim, che lo definì “una soluzione elegante, molto ingegnosa”. A posteriori, McKim dichiara che il progetto mouse fu “uno spingersi un po’ oltre” per i suoi ex studenti, “ma nemmeno più di tanto. Il progetto interessante è quello che è un po’ al di là delle tue capacità, ma non così oltre da portarti all’insuccesso”.

Insuccesso? Difficile. Il mouse Apple trasformò il concetto di personal computing. Anche se il costoso computer Lisa fu un flop, il Macintosh, presentato nel 1984, fece dell’interfaccia utente grafica lo standard nel settore. La Microsoft rispose con Windows e un proprio mouse, anch’esso costruito da Jim Yurchenco. “Abbiamo realizzato un mouse producibile in massa, affidabile ed economico”, dice Sachs, “e ne sono stati prodotti centinaia di milioni di esemplari”. Il mouse consentì alla Hovey-Kelley di affermarsi, e la sua influenza continua a farsi sentire nell’azienda che l’ha sostituita, la IDEO. “I progetti più ricercati nell’azienda sono quelli nelle aree in cui non abbiamo molta esperienza”, dice Kelley, che ora si divide tra la IDEO e Stanford, dove è professore associato nel product design program. (Anche Sun, Yurchenco e Dayton lavorano tuttora nella IDEO; Hovey e Sachs da allora hanno fondato delle aziende per conto proprio.) Il mouse, dice Hovey, “presentava il giusto equilibrio di design meccanico, design ergonomico, progettazione del software e design elettronico – davvero l’ideale per i mini da Vinci specializzati in più campi che la Hovey-Kelley aveva a disposizione. Perfino in dettagli come l’aspetto tattile del pulsante per cliccare, si trattava di un progetto perfettamente proporzionato per un progettista del prodotto di Stanford”.

Il pulsante per cliccare? Cos’ha di tanto importante? Da un punto di vista meccanico, il pulsante era semplice, ma l’attenzione riservatagli dalla Hovey-Kelley è illuminante. La sensazione espressa dal mouse dava forma all’esperienza dell’uso di Lisa e Macintosh, e il pulsante definiva l’esperienza dell’uso del mouse.

Perché il mouse funzionasse, erano necessari un solido rivelatore e un sistema di codificazione, una cassa toracica per riunire le parti elettroniche e quelle meccaniche, e una ghiera rimovibile per la pulizia. Era fondamentale prestare attenzione ai minimi dettagli ergonomici ed estetici del pulsante, per realizzare un mouse che potesse essere utilizzato.

Azzeccare le caratteristiche del pulsante – fargli emettere un “clic” udibile per indicare agli utenti la forza da apporre, capire quanto dovesse abbassarsi, renderlo reattivo, ma non tanto sensibile da rischiare di essere attivato per sbaglio – significava creare il mouse giusto. Fa parte di ciò che Sachs chiama “lo Zen del prodotto”, quelle qualità difficilmente descrivibili che determinano l’esperienza dell’uso di un prodotto tecnologico.

Normalmente pensiamo alla tecnologia come a semplice scienza applicata, riducibile a disegni ed elenchi di componenti; ma come spiega Sachs, ogni dispositivo cela “una proprietà intellettuale intangibile riguardo al funzionamento di qualcosa, che non si può assolutamente documentare, o cose in cui la lingua non ci è d’aiuto. Lo Zen del prodotto è una cosa che non si può mettere per iscritto”. Questo potrebbe aiutare a spiegare perché la storia del mouse Apple non sia molto conosciuta. Sembrerebbe avere tutti gli ingredienti di una delle migliori storie tipiche della Silicon Valley – giovani protagonisti, innovazione rivoluzionaria, un prodotto dal successo sfrenato, un cammeo di Steve Jobs – ma il design di prodotto non è proprio una cosa di cui i giornalisti o gli storici propendono a scrivere. Viene considerato invisibile: il lavoro dei progettisti appartiene ai loro clienti. Il contrario della moda, in cui gli stilisti sono nomi familiari e i produttori restano anonimi. Le aziende in realtà potrebbero dimenticarsi di essere state clienti; basti pensare che il primo brevetto Apple presentato sul proprio mouse è stato erroneamente attribuito esclusivamente ad un dipendente. Ma non è tutto. Persino tra gli aneddoti della Apple, “il mouse si perde, c’è e non c’è”, dice Sachs. “Chi tra noi ha partecipato alla progettazione sorride a questo proposito, perché il nostro obbiettivo era proprio di renderlo fluido e invisibile”, aggiunge. “Il fatto che il mouse fosse discreto e naturale è il risultato di molto lavoro”. Sono pochi gli utenti a notare il peso del filo, o l’effetto del connettore che collega il filo al mouse sull’agilità del mouse stesso, o il movimento silenzioso della sfera sul tavolo. Ed è così che dovrebbe andare. E’ destino peculiare del design ben fatto quello di cancellare le proprie tracce; il design fatto male si nota molto di più (vi ricordate del primo mouse iMac?). Pur essendo orgogliosi della popolarità del mouse, i progettisti lo sono ancora di più del suo essere invisibile.

 

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