Salvatore Iaconesi
[Designer] [diid 39_09]
john maeda | rhode island
MaedaMedia
“La complessità è la chiave per scrivere il prossimo capitolo per il graphic design.” (John Maeda, “Essay 2 of 3 for MdN Magazine”, 1995)
“La semplicità e la complessità hanno bisogno l’una dell’altra” (John Maeda, “The Laws of Simplicity” (blog), 2006)
11 anni. Due affermazioni. Una intera evoluzione. John Maeda (JM nel seguito) è fatto così. Mobile, incisivo e completamente dedicato ad una continua narrazione.
JM, nato a Seattle nel 1966, è il Presidente del Rhode Island School of Design (RISD), dopo essere stato graphic designer, professore universitario, autore e dipendente della fabbrica di tofu della sua famiglia.
La ricerca di JM si è costantemente posizionata in quel luogo variabile in cui si incontrano il design e la tecnologia.
Era il 1995 quando JM, su invito del prof. Yuichi Inomata della Tama Art University in Giappone, discuteva di metadesign. In una serie di tre articoli affermava che i “designer non definiscono più la cultura; i designer si adeguano alla cultura definita dai tecnologi.” Punto di vista che era sintomatico di un momento critico dell’impatto della tecnologia sul design, con l’emergere di strumenti nuovi, ma non ancora capaci di esprimere grammatiche d’uso evolute. Era un momento in cui porsi domande fondamentali sull’adozione tecnologica, e in cui aveva senso sperimentare approcci conservatori e di riscoperta della manualità. Come nel campo del disegno industriale, che “non può esprimersi pienamente usando parole stampate, o immagini – può essere rappresentato in maniera completa solo attraverso forme fisiche tridimensionali”. (JM, stesso articolo)
In questo periodo emerge l’originalità di JM, espressa attraverso il software, che inizia ad assumere il ruolo di unico elemento efficace tramite cui narrare ed illustrare i concetti del metadesign digitale.
Attraverso i tentativi di definire vocabolari formali e grammatiche operative nell’adozione di pratiche e tecnologie digitali, JM si è trovato a perseguire percorsi di analisi e ricerca con periodicità sinusoidale. Dallo studio delle interfacce di rudimentali predecessori di software come Photoshop e Illustrator, fino all’astrazione usata prima come strumento per elencare sistematicamente forme e dinamiche e poi come primo passo verso la natura e le sue suggestioni fatte di complessità percepite in maniera semplice. Per poi tornare al formalismo lineare e “zen” con il decalogo delle “Leggi della Semplicità”.
Gli esperimenti sulle interfacce, creati tra il 1995 ed il 2001, contribuivano a ripensare le modalità di interazione con i software di Desktop Publishing, aggiungendo ai comandi la dimensione del tempo: i punti si animavano, cambiando progressivamente forme e disposizioni, e creando scompiglio tra i designer digitali. L’obiettivo era di “rinforzare il coinvolgimento dell’utente con la forma tempo creando grafiche reattive, esperienze visuali che rispondessero all’interazione dell’utente in tempo reale e secondo modalità che fossero oltre la fisica (senza realtà virtuale) e che non offrissero esplicitamente contenuti (che non fossero media interattivi nel senso classico)”.
Espressione di questo approccio sono i 5 “Reactive Books”, prodotti tra il 1995 ed il 2002. I 5 libri ambivano a definire 5 sensi digitali, incentrandosi su 5 tipologie di input: audio, mouse, tempo, tastiera, e video. Era questo un riconoscimento del computer come una tela multidimensionale, da cui trarre completo controllo dell’espressività in due modi: attraverso mezzi fisici, come il mouse, in grado di accoppiare direttamente gestualità e cambiamento sulla tela; e attraverso mezzi radicalmente non fisici, chiamati computazionali.
Digitale e fisico. Computazionale e non-computazionale. Tecnologia e natura. La direzione è sempre quella dell’analisi della complessità, e della sua comprensione, al fine di renderla più semplice. Prospettive multiple al servizio della scoperta e dell’osservazione della fluidità naturale, e della naturalizzazione delle forme di espressività digitale.
Una natura che risulta essere l’espediente per introdurre il “tempo” tra le dimensioni del design, in fuga perpendicolare rispetto alle pratiche bidimensionali e tridimensionali non-digitali. Ma anche e soprattutto una natura con cui stabilire un dialogo, attraverso le metafore dell’interazione.
E’ del 2001 il libro “maedamedia”, in cui le fotografie al microscopio si sposano con le visioni filosofiche e poetiche sul mouse, o sulla natura dei pixel, in piccoli versi poetici, incastonati in una vera e propria interfaccia di carta: “E per le sue meravigliose proprietà metafisiche, forziamo il computer su metafore familiari. Ci deve essere la carta e, naturalmente, anche la corrispondente penna o matita.”
Lo stesso punto di vista riaffiora pochi anni dopo al MIT dove JM, tra una lezione e un disegno dei bellissimi cartelloni degli eventi ospitati nel dipartimento (v. Math Butterflies), fonda diversi laboratori incentrati sullo sviluppo e sull’uso di software.
Il primo, “Design by Numbers” si trasforma anche in un libro e dà spunto ad una delle più innovative piattaforme di sviluppo software per la creatività: il “Processing” di Ben Fry e Casey Reas.
Il secondo, il “Physical Language Workshop” (PLW) a creare una continuità tra il “Visible Language Workshop” del 1976 e il “Aesthetics + Computation Group” del 1996, raggruppando ricercatori e idee insieme ad Henry Holtzman nella progettazione di strumenti di rete per creare contenuti digitali. Progetti non sempre felici, non sempre completati, ma capaci di emozionare una ampia fascia di ricercatori, tanto da diventare un nodo di attenzione del design digitale, raccontando la storia del metadesign, della possibilità di creare strumenti e pratiche aperte. Un approccio completamente narrativo, quindi, a stimolare la nascita di relazioni e di centinaia di progetti.
L’ibridazione dei ruoli, visibile in forma embrionale, ma dichiarata, nel lavoro precedente, è forse il filo conduttore nel lavoro di JM. L’emersione di una figura a cavallo tra designer, ingegnere, matematico, e osservatore dall’etnografia alla biologia. E di nuovi spazi in cui cercare forme, modi di interazione, o anche semplicemente di ispirazione.
16 Ottobre 2013
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diid disegno industriale | industrial design Book Series approfondisce l’evoluzione e gli esiti della ricerca e sperimentazione progettuale e teorica nel campo del design. Ogni numero accoglie lo sviluppo di un tema rappresentativo del dibattito che attraversa la fenomenologia del sistema prodotto nell’estensione tecnica e culturale. A comporre questo racconto a più voci e con diversi punti di vista sono chiamati ricercatori, studiosi e professionisti della scena nazionale e internazionale che compongono il Centro Studi diid.