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L’ISIA di Firenze

L’ISIA di Firenze

 

Federica Dal Falco
[School] [diid 02|02]

 

L’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Firenze è una scuola statale di livello universitario nel settore dell’industrial e visual design. Istituito nel 1975 l’ISIA è ora riformato da una nuova legge, la 508, che in conformità con quanto previsto per l’Università riarticolerà l’attuale corso quadriennale in un triennio e in un successivo biennio di specializzazione.

La sede è a due passi dal Duomo, al primo piano di via degli Alfani 58. Gli spazi e gli arredi sono semplici, tradizionali: un lungo corridoio su cui si affacciano le aule, i laboratori, la biblioteca. L’attuale direttore è Giuseppe Furlanis. Architetto e progettista dirige l’Isia di Firenze dal 1991. Ha mantenuto vivi nella scuola quei due modi di progettare, uno legato alla creatività, l’altro di tipo professionale, che caratterizzavano l’ISIA degli anni precedenti. Furlanis è un direttore illuminato che crede in un ISIA protagonista del dibattito culturale opposto ad un modello del tipo scuola-azienda. Una scuola di cui siano riconosciuti, oltre ai fattori (la collaborazione con le aziende e l’inserimento nella realtà produttiva degli studenti) che tradizionalmente ne determinano la qualità, l’impegno etico e il forte carattere di sperimentazione progettuale.

L’ISIA di Firenze è considerata un modello di eccellenza. Quali sono gli obiettivi formativi e i principi pedagogici che la caratterizzano?

Vorrei partire da una riflessione più generale che dovrebbe essere considerata nelle prospettive future dei corsi di disegno industriale. La specificità del design italiano si fonda sulla transdisciplinarietà, sulla capacità di lavorare in un ambito di riferimento ampio, di trasferire conoscenze e competenze da un settore all’altro. Questa sua peculiarità è funzionale all’economia del nostro paese caratterizzata da sistemi flessibili di piccole e medie imprese organizzate in distretti industriali. Il design italiano esprime pertanto una concezione del progetto opposta a quell’iperspecialismo che caratterizza il disegno industriale in altri paesi come nel caso degli USA.

Penso sia fondamentale salvaguardare questa qualità e comprendere che la scuola, oltre a rispondere in modo professionale alle esigenze delle aziende, debba diventare una sorta di catalizzatore del dibattito culturale assumendo un ruolo centrale rispetto agli scenari di prospettiva. Tale considerazione permea i principi che sono alla base dell’organizzazione didattica dell’ISIA.

Innanzitutto la formazione degli studenti. Il nostro obiettivo è quello di formare un intellettuale colto in grado di riconoscere e gestire le potenzialità del progetto e di comprendere che a tale sintesi si arriva assumendo una posizione critica. Un designer capace di calarsi nella complessità che caratterizza il contesto nel quale l’atto progettuale si esprime; che sappia interpretare le trasformazioni in atto guardando non solo al sistema del mercato ma anche e soprattutto alle dinamiche sociali e alle contraddizioni che da esse derivano. In quest’ottica la scuola non può che avere un ruolo di primo piano nel dibattito culturale. D’altro canto la qualità delle più celebri istituzioni di design, dalla Bauhaus alla HfG di Ulm, non è tanto quella di aver formato dei buoni professionisti quanto di essere stati riferimenti colti per il design. Un insegnamento da non dimenticare.

La scuola che propone un centro di cultura contro la scuolaazienda, rovescia il concetto di specializzazione. In che modo questa filosofia si traduce nel programma di studi?

Questa tensione a fare dell’ISIA un polo di ricerca sottende, con modalità differenti, i cinque anni (l’ultimo è dedicato alla tesi) che ne costituiscono la struttura. È anche il motivo per cui promuoviamo molte iniziative culturali legando le esperienze didattiche interne ad istituzioni esterne (università, centri di ricerca, aziende…). Intendiamo la scuola come un laboratorio aperto, per un confronto sui nuovi scenari del design.

Vediamo le differenze tra i quattro anni anche dal punto di vista dei temi e dei risultati progettuali.

Premesso che al successo didattico dell’ISIA concorrono tutte le discipline, possiamo interpretare l’articolazione dei corsi nel seguente modo.

Il primo anno è dedicato all’acquisizione di strumenti di base. I contributi teorici, culturali e critici, sono affiancati da esperienze progettuali di carattere propedeutico.

Il secondo è un anno formativo e ha l’obiettivo di fornire quegli strumenti che consentono di arrivare ad un progetto compiuto. È l’anno in cui gli studenti cominciano a costruirsi nel loro fare progettuale una specifica identità culturale. Il terzo anno è quello legato alla realtà produttiva e gli strumenti sono quelli necessari per elaborare un progetto professionale adeguato. Non a caso è l’anno in cui stringiamo la maggior parte di convenzioni con le aziende. Gli obiettivi sono due: diversificare i temi in modo che l’iter progettuale si sviluppi su vari terreni e il confronto con la realtà abbia sempre un carattere fortemente sperimentale e costruire un rapporto con l’azienda che sia utile alla scuola. Che significa arrivare a prodotti innovativi soprattutto sul piano della concezione. Orientati in tal senso sono stati i corsi di Berretti, Cisotti, Ferrara, Van Onck. Un contributo fondamentale è venuto da Roberto Segoni come docente e come Presidente del Comitato Scientifico.

Vorrei cogliere questa occasione per ricordarlo come un maestro e un progettista appassionato che riusciva con le sue idee ad anticipare i tempi.

Attitudine questa che ha portato all’interno dell’ISIA dove ha sempre stimolato gli studenti a coniugare l’innovazione formale a quella tecnologica per dare origine a nuovi prodotti come nel caso dei progetti da lui seguiti nel settore del trasporto pubblico.

Il quarto è un anno orientato alla ricerca e alla sperimentazione .È l’anno in cui più che alla definizione degli artefatti si mira allo studio di quegli elementi che possono ridefinire la qualità dei prodotti. Gli studenti vengono spinti a perlustrare nuovi territori, a capire quali sono le emergenze sociali. I progetti devono avere carattere transdisciplinare e il progettista assumere il ruolo di coordinatore di più competenze. È in questo senso che va interpretato quel concetto di rovesciamento della cultura specialistica. Il quarto corso ha ricevuto il contributo dei principali protagonisti del design italiano. Vorrei ricordare le ricerche di De Pas sull’ecocompatibilità, di Mari sul tema dei non vedenti, quelle successive di Meda e Santachiara sull’innovazione tecnologica, i corsi di Hosoe sulla mediterraneità, di Deganello sulle protesi elettroniche e sul design multietnico e i più recenti contributi di Raggi sull’interior design e di Burkhardt su Identità locale e globalizzazione. Tradizione e innovazione apparentemente antitetiche sono viceversa compresenti nei prodotti in cuoio che gli studenti dei corsi di Deganello e Burkhardt hanno presentato al Salone del Mobile 2002, dimostrando come sia possibile partire dalla tradizione delle produzioni locali per giungere a nuove tipologie di prodotto. Sempre del corso di Deganello i progetti presentati all’interno della recente mostra Italian Style promossa dall’I.C.E. a New York e Tokyo. Tra questi due tute in tessuto elastico accessoriate con sofisticate componenti elettroniche che permettono in un caso il rilevamento informatico del corpo e dei suoi movimenti per produrre musica, nell’altro di facilitare terapie intensive di riabilitazione. Al fascino dell’elettronica nella stessa mostra si contrappone un altro progetto che esprime un concetto antico di crescita e cura, dove è l’uomo che deve riconoscere il valore delle cose e la preziosità della natura. Si tratta di un gioiello vivente costituito da una sfera di cotto, legata al collo da un filo d’oro, da cui esce una piccola pianta da accudire. Sempre orientati al tema della natura i progetti seguiti da Hosoe, tra cui Zolle, una vera e propria ricerca sul campo. Sono degli elementi di barriera contro la desertificazione delle oasi sahariane che, assemblati, ricreano la continuità delle dune. Questi prodotti di alta ingegneria, costituiti da strati di impasti di terre, torbe e semi specializzati sfruttano l’umidità determinata dalla differenza di temperatura tra notte e giorno tipica di quelle regioni. L’umidità assorbita consente la crescita dei vegetali. Non si tratta di prodotti industriali ortodossi, ma di artefatti che vengono concepiti a partire da un’esigenza specifica e diventano poi un modo per comunicare un messaggio etico.

Tra i progetti di impegno sociale sono da ricordare quelli indirizzati verso la realizzazione di prodotti, formalmente e funzionalmente più evoluti, per portatori di handicap e quelli tesi a produrre processi di innovazione nel settore biomedicale.

C’è poi il settore della comunicazione che non si limita a favorire negli studenti lo sviluppo di saperi e competenze specialistiche ma che propone l’ISIA, attraverso il coordinamento di progetti europei e l’organizzazione di eventi e convegni internazionali, come uno dei principali protagonisti del dibattito sulle nuove tecnologie della comunicazione.

Dunque un primo anno di basic design, un secondo mirato a formalizzare un progetto compiuto, un terzo professionalizzante, un quarto di ricerca radicale. Dopo questa complessità e varietà di orientamenti secondo quali criteri viene sviluppata la tesi finale? L’iter formativo si conclude con progetti aderenti alla realtà produttiva. Lo studente sceglie il tema ed organizza le relazioni con l’esterno: con gli specialisti più competenti e con l’azienda che lo seguirà nella realizzazione dell’artefatto. Attraverso la tesi deve dimostrare di aver acquisito la capacità di controllare e gestire il lavoro in modo professionale.

Nella scuola che ha descritto c’è molto spazio per riflettere sul senso del progetto contemporaneo. Secondo lei quali nuove prospettive deve prefigurare il disegno industriale?

Credo che oggi si debba pensare ad un design che interpreti la contemporaneità ritrovando una tensione morale e quel senso etico seppellito da un consumismo esasperato e dall’intolleranza. Penso che il designer debba cercare nei concetti e nei prodotti un nuovo equilibrio fra culture e aspetti che spesso sono a contrasto: tra natura e artificio, tra condizioni di vita diverse.

Le differenze vanno interpretate come un elemento di ricchezza e crescita, nell’ottica di un design della temperanza. E in questa ricerca la scuola non può che avere un ruolo di primo piano.

 

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