Carlo Martino
[Making] [diid 59_15]
Il design per la città, un tempo riferibile al solo corredo oggettuale, atto a funzionalizzare e ad accentuare la qualità urbana, oggi è chiamato a svolgere funzioni più ampie e differenti, molto più vicine al design dei servizi che a quello del prodotto. Dal contrasto ai processi di dispersione delle grandi metropoli, attuato attraverso progetti di ricucitura, ai nuovi prodotti per l’arredo urbano, più effimeri e tecnologici, ma anche più densi di significato e di esperienza.
In questo processo entrano in gioco molti dei macro fenomeni della contemporaneità: dalla manipolazione scalare, all’iterazione, al contenuto comunicativo,
complici le sperimentazioni della Urban Art, della Guerrilla Marketing e della pubblicità. Al perdurare di progetti site specific, si alternano quindi installazioni temporanee – in alcuni casi anche impregnate di nuove tecnologie – ed orientate a ricucire il senso della comunità urbana. Grandi giochi pubblici che coinvolgono e divertono, all’insegna della socializzazione e del buon design.
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“[…] oggi il processo di espansione del territorio metropolitano ha raggiunto dimensioni tali da portare a una profonda revisione dei diversi campi d’azione del progetto. […] Perciò la piccola scala del disegno industriale sta tornando a essere presa in considerazione come la più adatta a gestire i processi di dispersione in atto”. (Mello, p.222).[5] Nell’Ottocento e per tutta la prima metà del Novecento, il contributo riconosciuto al design per la qualificazione degli spazi pubblici della città era limitato a poche tipologie di artefatto, genericamente riconducibile all’espressione Arredo Urbano. Un insieme di arredi, “oggetti mobili urbani”[2], prevalentemente site specific, espressione di un genius loci ametà tra l’architettura e l’oggetto d’uso[3], pensato per assolvere funzioni elementari che una qualsivoglia città aveva l’ambizione di offrire a corredo dei propri spazi pubblici. “Città alla scala pedonale”[4], dove si rendevano necessari pochi e semplici artefatti per assicurare la qualità della vita pubblica. Nel 1969 G. K. Koenig giungeva a definire l’Arredo Urbano come l’insieme di “segni di accentuazione qualificativa dello spazio urbanistico”[5], e indicava i diversi percorsi che quest’ambito del design aveva la necessità di seguire in riferimento ai centri storici o alle periferie della città. Mimetico nel primo caso, istitutivo e caratterizzante nel secondo. Sul fronte comunicativo erano invece le affissioni a decorare gli spazi lasciati liberi dalle quinte
architettoniche della città e dal costruito. Ed ancora, al corredo artificiale della città, partecipava l’arte urbana, chiamata fin dall’antichità ad abbellire e a commemorare la comunità attraverso monumenti sentiti come fulcri di identità collettiva.
Dagli albori dell’Arredo Urbano, inframmezzati già nella seconda metà del secolo scorso da numerosi tentativi di serializzazione[6], perpetuati in risposta ad un modello di città moderna, replicabile, in cui le sfere d’azione erano limitate all’abitare, al lavoro ed al tempo libero (Borasi e Zardini, 2011), siamo passati oggi a dimensioni urbane incontrollate. Metropoli e aree metropolitane che hanno oltrepassato il concetto di limite e seriamente messo in discussione la concezione tradizionale di Arredo Urbano a favore di possibilità molto più ampie, in cui il design per la città è chiamato, come afferma Patrizia Mello, a invertire i processi di dispersione e a operare degli “aggiustamenti capillari”[7].
Se pensiamo a tutte le nuove città dell’estremo Oriente o alle infinite periferie della città contemporanea, i “non luoghi” di Augè sembrano essere molti più di quelli prefigurati dall’antropologo francese nel 1992, ed investono sempre più spazi pubblici urbani anonimi e degradati.
Oggi si delinea uno scenario per cui, se da un lato i processi di pianificazione urbana e di governo del territorio hanno dimostrato tutti i loro limiti applicativi, dall’altro, spazi e funzioni della città sono radicalmente mutati definendo una nuova domanda di progetto. La città contemporanea può essere vista, infatti, come il luogo in cui si compie quella “vita fluida” di Baumaniana memoria, che s’impone in modo indifferenziato a livello globale, e che investe funzioni, azioni e significati.
Resta ancora, in senso scenografico, un grande teatro – meno stabile e più effimero – ma è anche spazio di relazioni, luogo di comunicazione, di condivisione, di cooperazione, di servizi e snodo di azioni. Sono queste ultime oggi, infatti, sempre più al centro delle sperimentazioni che si stanno compiendo nell’ambito del design intorno alla città.
Rispetto ad ogni sua possibile interpretazione e alle diverse scale coinvolte nel suo disegno, il design contemporaneo sta cercando di dare risposte innovative, traendo linfa vitale dall’arte (urban art) così come dal marketing (guerrilla) e dalle nuove tecnologie, riuscendo in alcuni casi anche ad esercitare una forte influenza sull’architettura. In questo senso, la “deriva scultorea” attribuita da TomásMaldonado[8] all’architettura contemporanea sembra debitrice di un autocompiacimento autorale o di un esasperato virtuosismo plastico, in virtù di una più leggera relazione con il territorio e con la tradizione, che la sposta su un piano “atopico”, proprio del design.
Se negli anni Novanta Philippe Starck dimostrava che era possibile disegnare un edificio, ingigantendo la forma di un piccolo oggetto del quotidiano, una conferma di atopicità dell’architettura contemporanea veniva data, all’inizio del nuovo secolo, dalla ricorrenza tra Londra e Barcellona di soluzioni morfologiche identiche, ad opera di autori quali Foster e Nouvel[9], ed è stata ulteriormente confermata nei racconti di un noto designer/architetto italiano, Michele De Lucchi[10], a proposito delle sue architetture atopiche disegnate per Tiblisi e realizzate poi a Batum, in Georgia.
Molti edifici contemporanei sembrano grandi oggetti di design, avendo assunto più le sembianze di un artefatto ingigantito che quelle di un organismo tettonico, saldamente ancorato al proprio “luogo”.
La manipolazione scalare, argomento a me caro[11], è uno dei temi più potenti della contemporaneità, che proprio nel disegno della scena urbana si attua con forza.Molti degli sperimentatori degli ultimi anni, provenienti dall’arte, dall’architettura e dal design, daMark Reigelman, a Thomas Heatherwick, ad Allan Wexler, al collettivo spagnolo MMMM…, a quello italiano Esterni, operano continui passaggi – dalla piccola alla grande scala – come un proficuo esercizio progettuale. Per alcuni l’unità di misura urbana rimane il “corpo” e su questa base progettano oggetti urbani indossabili o recinti abitabili, con un approccio riconducibile alla
“domesticizzazione” della scena urbana, perpetuato già dalla cultura progettuale postmoderna negli anni Ottanta, altri confermano l’umana aspirazione all’immensità riconosciuta da Bachelard alla metà del Novecento.
Pertanto la città può essere interpretata, a conferma di quanto sostenuto dalla Mello, in una continua dialettica tra piccolo e infinitamente grande, come un insieme incommensurabile composto dalla sommatoria di piccoli e capillari interventi di riqualificazione.
Una dimensione, quella del “piccolo” e del “interstiziale”, che nella nuova scena del progetto contemporaneo si associa spesso a una dimensione “effimera”, che sposta il progetto per la città da permanente a temporaneo, da impianto a pura installazione. In questo senso arte e marketing hanno fortemente influenzato il design, introducendo modalità nuove e “virali” per sperimentazioni che sembrano non voler assurgere al ruolo permanente, ma a quello di provocare, attraverso brevi incursioni, impollinazioni culturali più efficaci. Alcuni dei progetti più interessanti degli ultimi anni muovono da questi assunti: dalleMeeting Bowls, le tre sedute circolari installate nel 2012 a Time Square per il solo mese di agosto, volute dal collettivo MMMM…per favorire gli incontri e la socializzazione tra i cittadini di New York; al progetto IBM: Smart Ideas for Smarter Cities del 2013, con cartelloni pubblicitari che si prestano a risolvere piccoli problemi della quotidianità urbana; ai complementi polifunzionali d’ispirazione domestica Stair Square di Mark Reigelman, installati temporaneamente tra i gradini della Brooklyn’s Borough Hall, nel 2007, in risposta allo step-sitting, al comportamento spontaneo cioè di sedersi sui gradini delle scale. Al progetto Two Too Large Tables, di Wexler installato per breve tempo sulle rive dell’Hudson, in cui due tavoli, sostenuti con sedie e schienali, creavano anche qui, nuovi dispositivi di socializzazione.
Le nuove forme di comunicazione e di guerrilla marketing sono certamente alla base dei suddetti progetti, in cui la dimensione temporale istantanea ed effimera diventa cifra caratterizzante. Il design dei nuovi artefatti per la città trova anche spunti e stimoli nell’accogliere le nuove tecnologie e nell’integrare intelligenza.
Molto si dibatte circa le Smart Cities, ed il design certamente ne è coinvolto lavorando ormai da qualche anno sugli Smart Objects e nell’ambito delle Internet of Things, in cui gli oggetti sono interattivi, intelligenti e connessi e per i quali appunto, la città si offre più che mai come fertile campo di sperimentazione.
Per cui accade già che nuove tecnologie partecipino ai processi di funzionalizzazione degli artefatti urbani. Escale Numerique, di Mathieu Lehanneur, del 2012, per esempio, è un approdo tecnologico urbano, che dimostra come aziende multinazionali dell’arredo urbano, quali la JC Decaux, da sempre orientate ad integrare il supporto comunicativo con il contenuto pubblicitario, stiano lavorando a soluzioni intelligenti e connesse per la città, non trascurando il rapporto con la natura e la sostenibilità. Altrettanto evidente è il rapporto tra artefatto urbano e nuove tecnologie, che si ritrova nel progetto realizzato a Montreal, questa volta permanente:
21 Balancoires, in cui 21 altalene connesse e luminose, oscillando, “suonano”,ma solo se i fruitori “cooperano” e si coordinano nei movimenti.
Concludendo, molte delle soluzioni estetiche, delle scelte tecnologiche e materiche adottate dal design degli artefatti per la città, rappresentano l’esito di un trasferimento da quelle sperimentazioni elaborate negli ultimi quindici anni nell’ambito dell’outdoor design. Quest’ultimo, rivolto prevalentemente a un contesto privato, ha spinto molto in avanti l’innovazione tipologica, alla ricerca di un maggiore comfort e della risposta a mutate condizioni sociali ed antropologiche,
che hanno per esempio privilegiato gli oggetti a fruizione multipla o condivisa, oggi più che mai visibili anche in contesti pubblici.
Infine, il design degli artefatti per la città dimostra di essere in grande fermento e quanto mai dinamico, sensibile alle problematiche che la città contemporanea in costante evoluzione pone: da quelle di natura sociale, a quelle di servizio. Se da un lato continuano ad essere elaborati progetti di riqualificazione site specific, così come ad essere proposti prodotti-mobili, carichi di suggestioni ambientali che poi trovano spazio nei repertori aziendali (si pensi al caso Jc Decaux), dall’altro nuovi fenomeni più interessanti e capaci di liberare il potenziale espressivo del progetto, stanno emergono con forza da tutte quelle soluzioni effimere e temporanee in grado di stimolare l’opinione pubblica e di bypassare, attraverso la precarietà, le limitanti problematiche funzionali. Tali sperimentazioni rappresentano degli importanti segnali culturali che fanno ben sperare in un futuro migliore per la qualità della nostra vita urbana en plein air.
(1) Mello, P. (2008). Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture. Milano: Mondadori Electa.
(2) Molinari, L. (2010). Arredo Urbano, in Lessico del XXI secolo.
(3)Non è un caso che l’Arredo Urbano abbia avuto in Italia un ruolo dimediazione nell’insegnamento del disegno industriale nelle suole di architettura.
(4) Molinari, L. (2010). Op.cit.
(5) Koenig, G. K. (1969). La città come sistema di Comunicazioni. In Casabella, n.339-340, (pp.20-21).
(6) Si vedano i prodotti di G. Giugiaro, G. Germak, G. De Ferrari, V. Jacomussi per Alumix (1986) pensati per la città di Torino, il palo di illuminazione disegnato da J. M. Wilmotte per gli Champs Elysées di Parigi per J.C. Decaux (1994), ecc.
(7) Mello, P. Op.cit, p.222
(8) Maldonado, T. (2010). Arte e artefatti. Intervista di Hans Ulrich Obrist, Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editori, (p.67).
(9) Il grattacielo Gherkin dell’arch. Norman Foster a Londra (2004) e la torre Agbar a Barcellona ad opera dell’architetto francese Jean Nouvel, (2005), presentano delle forti analogie morfologiche.
(10) “Perché un film su Michele De Lucchi” di Alessio Bozzer, prodotto da Terredarte con la collaborazione di Videoest, 2013. La sua proposta per il palazzo del parlamento a Tiblisi, tanto piaciuta all’allora presidente della repubblica georgiana, non potendo essere realizzata in quanto progetto non vincitore del concorso, fu poi “riutilizzata” tale e quale in un’altra città ed in un altro contesto. Oggi è la Law Court di Batumi.
(11) Martino, C. (2008). A cura di, Off Scale Design, DIID n.31, Roma: Rdesignpress
¶ Augè, M. (2003). Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della sub modernità. Edizione integrata con una nuova prefazione, Milano: Eleuthera. 1° edizione italiana 1992.
¶ Borasi, G., Zardini, M. (2011). La città contemporanea: un inventario di azioni. In Inventario n.02, Mantova: Corraini edizioni. (pp.147-155).
¶ Koenig, G. K. (1969). La città come sistema di Comunicazioni. In Casabella, n.339-340. Maldonado, T. (2010). Arte e artefatti. Intervista di Hans Ulrich Obrist.
Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editori.
¶ Martino, C. (2002). Arredo Urbano. In Piccola Enciclopedia, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. (pp.124-125).
¶ Mello, P. (2008). Design contemporaneo.Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture. Milano: Mondadori Electa.
¶ Molinari, L. (2010). Arredo Urbano. In Lessico del XXI Secolo, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. http://www.treccani.it/enciclopedia/arredourbano_(Enciclopedia-Italiana)
7 Novembre 2017
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3 Novembre 2017
diid disegno industriale | industrial design Book Series approfondisce l’evoluzione e gli esiti della ricerca e sperimentazione progettuale e teorica nel campo del design. Ogni numero accoglie lo sviluppo di un tema rappresentativo del dibattito che attraversa la fenomenologia del sistema prodotto nell’estensione tecnica e culturale. A comporre questo racconto a più voci e con diversi punti di vista sono chiamati ricercatori, studiosi e professionisti della scena nazionale e internazionale che compongono il Centro Studi diid.