Pier Paolo Peruccio
[Making] [diid 59_15]
L’articolo intende mettere a fuoco il rapporto tra partecipazione, architettura e design e rispettive forme di ibridazione. In particolare, definita la partecipazione in campo progettuale quell’area di negoziazione tra società civile, istituzioni, designer e utenti finalizzata a produrre un cambiamento reale e positivo per la collettività, s’intendono verificare i punti di convergenza tra approcci diversi attraverso l’analisi di alcuni case-studies tra la fine degli anni settanta del secolo scorso e oggi. Il termine a quo del dibattito internazionale si può individuare nel 1971 presso l’Università di Manchester, quando prendono avvio i lavori della conferenza “Design Partecipation” promossa dalla Design Research Society.
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Il progetto partecipato ›
La partecipazione è una delle grandi retoriche degli ultimi quarant’anni, strumento utile per avviare processi di progettazione dal basso, ma anche raffinata strategia di comunicazione per legittimare azioni top-down e, in alcuni casi, addirittura ex post. La partecipazione è un termine scivoloso, riguarda il collegamento diretto tra società civile e istituzioni (tra comunità e gruppo di progettazione, tra utenti e designer) in qualsiasi azione decisionale che implichi scelte, spesso impopolari. Si parla di partecipazione in politica, nel progetto a scala territoriale o di quartiere, nell’architettura ma anche nel progetto di design; ancora, partecipazione nell’arte (opera aperta), nella musica e nel giornalismo (citizen journalism).
Esiste un tipo di partecipazione discendente, in cui la comunità è chiamata a esprimersi quando le decisioni sono già state stabilite (il caso della linea ferroviaria TAV in Valle di Susa insegna) e un tipo ascendente, in cui l’iniziativa si alimenta dal basso creando consenso attraverso processi democratici di collaborazione secondo un preciso schema pubblicato in un seminal article di fine anni sessanta (Arnstein, 1969). La partecipazione popolare chiamata e sollecitata da più parti diventa metafora di processo democratico; tuttavia, come già ricordato, quando è “calata” dall’alto può compromettere il collegamento di cui sopra generando, tra le parti coinvolte, fratture di difficile ricomposizione.
Per l’architetto Christopher Alexander la progettazione partecipata consiste in un qualsiasi processo mediante il quale gli abitanti di un luogo contribuiscono essi stessi a plasmarlo (Alexander & Silverstein, 1975). Ciò avviene a diversi livelli del processo: il livello base è quel genere di partecipazione dove l’utente interviene nel progetto agendo “come farebbe un committente con un architetto”, fino a un livello più alto, quando invece gli utenti si costruiscono autonomamente la propria abitazione. La partecipazione simuove quindi tra un intervento leggero di tipo “direttivo-informativo” fino a pratiche vicine ai temi dell’autocostruzione, nel campo dell’architettura, o all’autoproduzione nel campo del design. Il campo di applicazione è quindi piuttosto vario e frammentato: a legare questi interventi rimane una componente imprescindibile di intervento bottom-up in cui è l’utente a orientare realmente l’azione progettuale.
Il programma di recupero del centro storico di Otranto, avviato alla fine degli anni Settanta da Renzo Piano insieme all’ingegnere Peter Rice, rappresenta una delle prime significative vicende italiane inmateria di partecipazione. In questo “laboratorio di quartiere”, pensato come struttura mobile e aperta, vengono attuate modalità partecipative e di coinvolgimento degli abitanti, in primis gli artigiani del luogo, attraverso momenti di formazione, discussione, condivisione e cantiere aperto. A questo laboratorio ne seguono altri, ancora in Puglia, a Bari, con un ampliamento delle competenze per gestire anche la manutenzione programmata di parti di città, poi nell’isola di Burano vicino a Venezia e a Genova con esiti tuttavia non sempre in linea con le aspettative dei cittadini.
La partecipazione nel design ›
Il design oggi si alimenta di queste retoriche e pur mantenendo viva una componente autoriale “storica” che rafforza la sacralità del gesto creativo all’interno di un circuito mediatico ben preciso, si fa sempre più strada il ruolo del progettista come mediatore di saperi e di collegamento con l’utente attraverso la creazione di schemi aperti piuttosto che forme finite. Parafrasando Giancarlo De Carlo, “il design è troppo importante per essere lasciato ai designer”: tuttavia, nell’ambito del design i processi di partecipazione che provocano cambiamenti reali nella collettività sono solo una minoranza, mentre risulta più immediato che avvenga, per ovvie ragioni, nel campo della progettazione a scala urbana o architettonica.
Nel design, infatti, esistono forme ibride di partecipazione in cui l’utente agisce in reazione a modelli produttivi seriali di massa e partecipa al processo in maniera individuale o in gruppo, talvolta con azioni mirate ad adattare un prodotto mediante approcci di tipo sartoriale.
Gli esempi sono numerosi, vale la pena citare il caso di Elephant Design, società nipponica fondata nel 1997, tra le prime dot.coma utilizzare internet permettere in rete le aziende, i consumatori e i designer. Una triangolazione necessaria per collocare sul mercato il sistema “Design to Order” (design su ordinazione), un principio allora decisamente originale basato sulla progettazione di oggetti richiesti dagli stessi consumatori. Certamente per il caso del citizen journalismo per altre forme partecipative ci si è interrogati a lungo sulla qualità e sull’affidabilità del materiale piuttosto eterogeno, siano essi input progettuali o articoli di giornale, proveniente dagli users, nonostante internet abbia sviluppato nel tempo una spiccata capacità di self-selection, autopulizia e autocorrezione come dimostra, ad esempio, il fenomeno Wikipedia.
Più recentemente il caso di Turineyes è emblematico di una direzione progettuale in cui si integrano competenze artigianali, tipiche di una cultura del saper fare che si tramanda da padre in figlio, con gli strumenti del disegno, taglio e produzione ai confini della digital fabrication. Un team affiatato di giovani designer e imprenditori, con opportune conoscenze del mondo dell’ottica, apre così a Torino nel 2011 l’atelier Turineyes specializzato nella progettazione e costruzione artigianale di occhiali. L’utente diventa parte di un percorso sofisticato di ricerca sulla forma e sui materiali, componente attiva di un processo che attraverso la realizzazione di uno o più mock-up in acetato di cellulosa giunge alla costruzione di un pezzo unico, un occhiale su misura modellato intorno alle caratteristiche fisiche dell’individuo. Le declinazioni di questo fenomeno venivano già dibattute, e in parte anche anticipate, nel 1971 aManchester, in occasione di una prima conferenza sul tema intitolata “Design partecipation”. Promosso dalla società britannica Design Research Society questo incontro rimane un momento importante di discussione attraverso i contributi di figure come, tra gli altri, Yona Friedman e Nigel Cross, alfieri ancora oggi di questa cultura progettuale (Cross, 1972).
Negli ultimi vent’anni l’utente empowered si è evoluto, anche nei neologismi che lo inquadrano, passando da una figura di prosumer a indicare un soggetto che è contemporaneamente consumatore e produttore (Toffler, 1989) fino a quella più recente dimaker (Anderson, 2012), ampiamente illustrato nel numero 57/14 di Diid, passando attraverso una configurazione di designer user, di innovation user e di produser (Bruns, 2008). Sono molti i punti di contatto tra esperienze di coinvolgimento sociale e partecipatory design attuate oggi da designer in Brasile o in altri luoghi per generare nuove opportunità economiche, per rilanciare attività agricolo-artigianali attraverso gli strumenti di design o costruire scenari di progetto e di servizio insieme alle comunità locali. A Belo Horizonte, piuttosto che a Shanghai o a Helsinki, le università promuovono attività di didattica e di ricerca con i cittadini e altri stakeholders sul confine tra social design, design dei servizi e design sistemico con l’intento di creare reti di relazioni, intangible assets cruciali nella formazione di comunità. Infatti, la formazione di capitale sociale, inteso come network di relazioni, formali e informali, è uno strumento straordinario di aggregazione e oggi uno degli elementi indispensabili per innescare processi virtuosi di micro impresa e rafforzare i legami all’interno della società civile.
Interessante dal punto di vista metodologico è invece l’attività di progettazione partecipata diretta da Alexander per il campus dell’Università dell’Oregon. Così come si legge nel volume “The Oregon Experiment” (Alexander & Silverstein, 1975), che restituisce integralmente il processo per arrivare a unmasterplan condiviso, l’architetto austriaco coinvolge fin da subito progettisti
espertima anche studenti, tecnici e dirigenti direttamente interessati allo sviluppo del campus, fornendo loro un pattern language necessario per “creare ordine e non il caos”. Nel disegnare i flussi, gli spazi e i luoghi di crescita dell’università si fa largo uso di pattern che rappresentano la codificazione di problemi progettuali ricorrenti per garantire agli utenti solide basi prima di operare le scelte di progetto. Il risultato finale rimane tuttavia modesto: “il tallone d’Achille del progetto, qualcosa che Alexander non aveva previsto nonostante la raffinatezza del suo pattern
language – scrive Carlo Ratti nel volume “Architettura Open Source” – fu la difficoltà di coinvolgere le parti interessate nel processo decisionale vero e proprio, quello che avviene alle riunioni per alzata di mano” (Ratti, 2014).
Ancora l’università, o meglio i suoi servizi sociali, sono il tema di un workshop progettuale, svolto nel 2006 al Politecnico di Torino, per individuare le linee guida di una possibile “città della conciliazione” da costruire a Grugliasco, vicino alla sede dell’Università di Torino. La necessità di una struttura di conciliazione dei tempi lavorativi e familiari emerge chiaramente dai risultati di un questionario distribuito a docenti e studenti da parte del Comitato per le Pari Opportunità dell’Università. Si lavora così a unamodalità di processo partecipato che tenendo insieme istituzioni e utilizzatori futuri di quei luoghi, arriva a un risultato concreto e all’inaugurazione nel 2010 di un asilo nido, e di altre strutture per offrire servizi all’infanzia usufruibili tanto dai dipendenti dell’università quanto dagli stessi abitanti.
La partecipazione si fonda sul dialogo e sul confronto tra posizioni anche distanti, tuttavia raramente le parti coinvolte riescono a comunicare efficacemente. Conoscenze troppo specialistiche da una parte (gli architetti, meno forse i designer) e difficoltà nell’esprimere le necessità o il grado di importanza delle cose che si desiderano (gli abitanti ma anche gli users) possono inficiare la progettazione, questione molto cara a Yona Friedman fin dagli anni settanta e per la quale arriva ad alcune proposte, naïves forse per alcuni, basate su fumetti e rappresentazioni semplificate di funzioni e collegamenti, come “bottoni e fili”, capaci di tradurre concetti e significati per un pubblico allargato. La progettazione del resto è un atto collettivo e la comunicazione è il collante e al tempo stesso motore di processi partecipati.
¶ Alexander, C. & Silverstein, M. (1975). The Oregon Experiment. New York: Oxford University Press.
¶ Anderson, C. (2012). Makers: the new industrial revolution. New York: Crown Business.
¶ Arnstein, S. R. (1969). A Ladder of Citizen Participation, Journal of American Plannign Association, 35 (4). 216-224.
¶ Bruns, A. (2008). Blogs, wikipedia, second life, and beyond: from production to produsage. New York: Peter Lang.
¶ Cross, N. (1972). Design partecipation: proceedings of the Design Research Society’s conference. London: Academy Editions.
¶ De Carlo, G. (2013). L’architettura della partecipazione. Macerata: Quodlibet.
¶ Friedman, Y. (2009). L’architettura di sopravvivenza. Una filosofia della povertà. Torino: Bollati Boringhieri.
¶ Ratti, C. (2014). Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta. Torino: Einaudi.
¶ Toffler, A.(1989). The third wave. New York: William Morrow & Company.
7 Novembre 2017
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3 Novembre 2017
diid disegno industriale | industrial design Book Series approfondisce l’evoluzione e gli esiti della ricerca e sperimentazione progettuale e teorica nel campo del design. Ogni numero accoglie lo sviluppo di un tema rappresentativo del dibattito che attraversa la fenomenologia del sistema prodotto nell’estensione tecnica e culturale. A comporre questo racconto a più voci e con diversi punti di vista sono chiamati ricercatori, studiosi e professionisti della scena nazionale e internazionale che compongono il Centro Studi diid.