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Augmented Design

Augmented Design

Lorenzo Imbesi | Derrick de Kerckhove | Donald Norman | Bruce Sterling

[Opening] [diid 39_09]

a virtual roundtable

Augmented Design

 

Tavola rotonda virtuale con: Lorenzo Imbesi, Derrick de Kerckhove, Donald Norman e Bruce Sterling

 

Lorenzo Imbesi: Come definireste l’Interaction Design? Quale pensate sia il ruolo della tecnologia nell’area del design e quale invece il ruolo del design nella tecnologia e nella società?

 

Bruce Sterling: L’“Interaction design” è quell’area che si trova tra lo “Human/computer Interface Design” e l’“Experience Design”. L’”Interazione” ha fatto la sua apparizione sulla scena del design poiché il vecchio modello statico – un essere umano da una parte e un computer dall’altra – è stato demolito. L’“Experience Design” rappresenta un paradigma più ampio, ma ancora troppo vago per poter affrontare un maniera diretta gli attuali e urgenti problemi del design con i siti web, i cellulari e così via.

 

Donald Norman: Cos’è l’Interaction Design? Cosa non è? Per quanto mi riguarda, la parte più interessante del design sta nell’interazione tra il design stesso e la gente, o, in alcuni casi, tra il design e la società. Io stimolo, lui reagisce. Lui si muove, io reagisco. Tutto è interazione.

 

B. S.: Il ruolo del design qui resta il solito: osservare l’utente, creare una forma, curare l’ergonomica, produrre prototipi iterativi. I designer non sono tenuti a diventare ingegneri informatici o assistenti sociali. Se lo desiderano, possono farlo, ma non sono obbligati.

 

Derrick de Kerckhove: All’epoca in cui l’Interattività era ancora un termine che lasciava a bocca aperta la maggior parte della gente, avevo proposto la parola “cyberdesign” per descrivere al meglio il design volto all’interazione. Questo perché cyber significa timone, che è il principio alla base del design, ovvero come dirigere il flusso, della mente, della sostanza, del materiale, del traffico, di beni, o di qualunque altra cosa. Io credo che qualsiasi design abbia origine nel corpo. Ogni nostro gesto è preceduto da una simulazione sequenziale ad esso simultanea, una “anteprima” neurale del gesto stesso. L’Interaction Design consiste nella conduzione tecnica del gesto e del contatto umano in senso lato. L’interattività è una variabile del tatto, non della vista. E’ dotata di consistenza, pressione, e movimento. Le interfacce tattili esistono ormai da un po’ di tempo, ma hanno davvero preso piede solo con la comparsa dell’i-phone. La simulazione (ovvero il design nella sua forma più pura) fa parte anch’essa di questo processo, che è radicato nel corpo organico umano ed animale. In un certo senso si potrebbe dire che persino la musica – e soprattutto la musica dance – è una forma di design perché si ripropone di gestire i gesti umani attraverso le vibrazioni.

 

D. N.: Il design dei servizi è puro interaction design. Si tratta di una delicata negoziazione tra il provider e il destinatario di servizi, che il provider sia una macchina (come i distributori di biglietti o di denaro) o una persona. Con i prodotti, gli aspetti critici riguardano la comprensione e la comunicazione, la natura dell’interazione e i benefici derivati (o meno). E soprattutto, la qualità dell’esperienza, idealmente di piacere e di gioia, bellezza ed entusiasmo, ma spesso invece di frustrazione e delusione, irritazione e fastidio.

 

D. d. K.: Abbiamo imparato molto sulla necessità organica della simulazione nell’esistenza e nel pattern dei neuroni specchio. Abbiamo intrinsecamente la necessità di simulare per poter elaborare. Ciò che fa la tecnologia è consentire a questa simulazione, alimentata dall’elettricità, di essere portata all’esterno e distribuita in una infinita varietà di forme e configurazioni. Poiché la stessa tecnologia è un prodotto del design, restituisce ora il favore offrendo al design nuovi strumenti: non solo la simulazione, ma anche strumenti cognitivi e di connessione. Abbiamo sempre pensato che il design dipendesse dalla cognizione, ma potremmo scoprire con grande stupore che la cognizione dipende dal design. Come nel caso di Design e Tecnologia, sono gemelli siamesi, impossibili da dividere. Qualsiasi tecnologia è il risultato di una paziente progettazione che si sviluppa sulla base delle risorse materiali e scientifiche disponibili. A sua volta, la tecnologia si ripercuote sul design generandone la mentalità.

 

D. N.: Qual è il ruolo della tecnologia in tutto questo? Tutto ciò che è artificiale è tecnologia, perciò tutto ciò che viene progettato appartiene per definizione alla tecnologia. Secondo un punto di vista limitato, la tecnologia deve coinvolgere l’elettronica e i computer e forse gli schermi e altre cose misteriose. Questo approccio sostiene che la tecnologia siano le cose che non riusciamo a capire, e una volta che viene accettato qualcosa come appartenente alla quotidianità, quale un fornello per la cucina, non si tratta più di tecnologia. Ebbene, io rigetto totalmente una simile premessa. Il design è ovunque. La tecnologia è ovunque. L’interazione è ovunque.

 

L. I.: La retorica dell’Immaterialità e del Digitale ha rappresentato uno degli ambiti di ricerca e sperimentazione negli anni Novanta e nei primi anni del nuovo millennio. Ora, sembra che stiamo tornando alla centralità degli oggetti materiali. Le questioni Virtuali ed Immateriali possono ancora essere pertinenti al design e alla ricerca? Quali sono le questioni emergenti su cui innovazione, ricerca e design dovrebbero convergere nel breve termine?

 

D. N.: Viva il corpo, il mondo fisico, la realtà. Il mondo dei computer ha causato un infelice allontanamento dalla realtà verso la sterilità ristretta degli schermi e delle tastiere, dei mouse e di altri esseri artificiali. Abbiamo perso il contatto con il nostro corpo, abbiamo perso il contatto con il mondo reale. Brindiamo alla scomparsa di questa enfasi artificiale sull’artificialità. Noi esseri umani possediamo un corpo. Ci siamo evoluti in un mondo tridimensionale con suoni, paesaggi, oggetti ed esperienze tridimensionali.

 

D. d. K.: E’ del tutto palese che le tecnologie dei materiali quali le biotecnologie, le nanotecnologie e l’ingegneria genetica stiano suscitando un certo interesse, e a ragione, ma non credo che stiamo tornando alla materialità dell’oggetto. Tutte le tecnologie sopracitate hanno a che fare con la gestione della sostanza sub-visiva, infinitesimale. La materia stessa è smaterializzata dal processo analitico che va dal subatomico ai quanti. La transizione attraverso il virtuale e l’immateriale, dall’era meccanica a quella digitale ha consentito a molti di capire che la materia è tanto fluida quanto le informazioni a livello di meccanica quantistica, una delle direzioni più significative intraprese oggi da scienza e tecnologia. Accade ora che la materia venga trasformata in una sorta di forma artistica, una sostanza programmabile per scopi ben precisi. Anche se viene investita e manipolata dalla tecnologia, e in buona parte smaterializzata, la materia diventa un oggetto che attira l’attenzione. Proprio come, secondo Walter Benjamin, l’opera d’arte perde la sua aura nella riproduzione meccanica, la realtà viene trasformata in un oggetto degno di valutazione estetica da parte di fenomeni quali i “reality show”. L’immateriale (tra cui includo i network, la cosiddetta “augmented reality”, i sensori ambientali e tutte le tecnologie digitali) è l’aura che circonda la materia e la penetra. Portiamo in tasca le nostre aure, accanto ai telefoni cellulari. Io sono in contatto con il mondo, e il mondo è in contatto con me.

 

B. S.: Non ci stiamo ripiegando verso materiale, stiamo ibridando materiale e virtuale. Si tratta di un utile passo avanti. Sarà ancora possibile progettare esclusivamente per i dati da riportare sugli schermi, ma in un mondo in cui gli schermi sono sempre più piccoli, portatili, senza fili e localizzati, limitare il design digitale al mondo virtuale è un gesto purista.

 

D. N.: Dunque, a volte la virtualità è benefica. Ma riserviamole solo una tra le posizioni dedicate ai molti strumenti e sistemi a nostra disposizione. Deve essere detronizzata, fatta scendere dal piedistallo e situata semplicemente sugli scaffali tra altri strumenti della vita moderna, quali la comunicazione, la scrittura, il viaggio e la parola.

 

D. D. K.: Perciò dobbiamo continuare a prestare attenzione al ventaglio di opportunità per il design nel regno virtuale. L’aura della materia è come quella dell’opera d’arte originale: insostituibile.

 

L. I.: Includiamo la virtualità nel nostro mondo artificiale di oggetti?

 

B. S.: Ora ha senso presentare in questo modo la nostra situazione, ma alla lunga credo si tratti di un approccio arcaico. Piuttosto che trasferire una componente di virtualità negli oggetti reali – come mettere una testa di cavallo in una “carrozza senza cavalli” – dovremmo sforzarci di capire a pieno la pianificazione, la fabbricazione, la spedizione, l’uso e lo smaltimento degli oggetti. Ad esempio, l’interaction design potrebbe rielaborare gli oggetti fisici in una “serie di interazioni congelate”. Oggi è frequente vedere oggetti generati dall’ibridazione “oggetto-servizio”, ma in questo ambito è necessario lavorare ancora per parecchi decenni e in maniera produttiva sul design.

 

L. I.: Qual è la forma “oggettiva” del futuro?

 

D. d. K.: Il futuro non ha forma, emerge sempre non solo da una miriade di circostanze ed equilibri concomitanti, ma anche dalle varietà infinite dei nostri processi cognitivi individuali. Il futuro è dietro di noi, non davanti. E’ la forza che fa emergere lo stato delle cose. Tuttavia, se lo si preferisce, lo si può anche situare sotto di noi. Abbiamo la sensazione di averlo sotto i piedi, quando in realtà è tutto attorno a noi, perfettamente integrato nel presente, nell’imminente.

 

B. S.: Credo che il futuro abbia in effetti una forma oggettiva al di là delle nostre metafore e strutture mentali sul futuro, ma è estremamente difficile parlare degli eventi futuri in senso puro senza inserire qualche metafora come quella della “forma”. Poiché il futuro è più un processo che una destinazione, non è tenuto ad assumere una “forma”. Il futuro non è nemmeno tenuto ad essere comprensibile agli esseri umani. E’ più produttivo identificare il futuro come una serie di “possibilità di design”, piuttosto che come uno sfondo fisso denominato “il futuro”.

 

D. d. K.: Inoltre il futuro dell’“oggettivo” stesso potrebbe essere messo in discussione. Il suo stato è sotto minaccia, proprio come quello della realtà. Perciò molto di ciò in cui crediamo, persino di ordine scientifico, ora è considerato parte di un consenso adottato tramite una apposita serie di filtri cognitivi e tecnologici che danno forma alla fisica, tanto quanto la fisica, a sua volta, dà loro forma.

Tuttavia, se limitiamo il nostro campo visivo alla “forma” effettiva dell’oggetto del futuro, è possibile immaginare forti tendenze dalla forma fluida visibile in Calatrava, Gehry e nelle aspirazioni ovoidali della progettazione automobilistica. Si potrebbe riservare una particolare enfasi alle tecnologie distribuite, ai sensori interattivi, gli interconnettori tra materiale e digitale, ciò che Neil Gershenfeld ha ingegnosamente denominato “l’Internet delle cose”. Oltre a tutte queste forme visibili, potrebbe esistere una nuova consapevolezza e sensibilità del design per le complessità del network design, o degli ambienti il cui contenuto è autogenerato. I rapporti personali della gente comune con l’ambiente, a lei vicino o remoto, stanno diventando più consapevoli, forse più partecipativi. Considero possibile che molte persone, anziché giudicare sempre le cose dal punto di vista razionale, saranno tentate a percepirle in maniera più “fisica”, alcuni dicono “esperienziale”. Ciò significa sentire il mondo da un “punto di esistenza” piuttosto che limitarsi a guardarlo in maniera distaccata. Davvero, c’è spazio per il design tattile.

 

L. I.: Potreste selezionare e descrivere un progetto di design che possa essere considerato per diversi motivi paradigmatico dell’attuale condizione della ricerca nel campo del design?

 

D. N.: Nella ricerca in questo settore, abbiamo bisogno di un corpo di conoscenza e comprensione cumulativo e sostenibile. Abbiamo bisogno di principi che i designer possano utilizzare a proprio beneficio e che altri ricercatori possano verificare o rigettare, ma in ogni caso principi che si basino sul lavoro precedente, allo scopo di costruire un corpus permanente e in espansione di utili intuizioni sulla scienza del design.

La pratica del design è complessa. A volte il progetto inizia con obbiettivi vaghi e mal costruiti, ma si ripropone di generare oggetti e servizi pratici, utili e piacevoli. C’è moltissimo spazio per la creatività e gli sprazzi di genialità, ma altrettanto – e necessario – per i principi, gli strumenti e le tecniche che si possano basare su ciò che è già stato appreso.

 

B. S.: Beh, se è possibile denominare il Web 2.0 un “progetto di design”, sicuramente è stato paradigmatico del periodo 2005-2008. Il Web 2.0 proponeva tutta una serie di innovazioni per il design contemporaneo: servizi componentizzati, beta perenni, il web come piattaforma, dispositivi connessi, architetture di partecipazione, contenuti generati dagli utenti, maggiore uso delle esperienze staccando ed inserendo piccoli moduli di software, e così via.

Se dovessi nominare il candidato principale per il 2009, direi Google Wave, anche se uscirà solo nel 2010. Negli studi tecnologici è paradigmatico per un medium smettere di fare il verso a forme precedenti ed assumere forme congenite.

 

L. I.: Stiamo attraversando una delle massime crisi: si tratta di una crisi finanziaria ed economica, ma ha anche l’aria di una sconfitta del sistema economico e capitalista che si basava sui flussi liberi in grado di superare i confini e i limiti fisici, anche grazie alle nuove tecnologie e alla comunicazione. Pensate che le nuove tecnologie possano ancora rivestire un ruolo per uscire dall’emergenza?

 

D. d. K.: Vorrei poter dire con fiducia che questa crisi è solo uno scossone di auto-assestamento dovuto alle relazioni sproporzionate nei rapporti tra valore di mercato gonfiato – scatenato da livelli catastroficamente grotteschi di avarizia e cupidigia tra molti dei responsabili – e l’effettiva produzione o servizio. Questa è una delle possibilità. Un’altra è che la crisi possa non essere proprio innocente come si dice tra i media. Nonostante la gente ne subisca davvero le conseguenze, in realtà si ha la sensazione che sia stata “fabbricata”, progettata! Dichiarare la bancarotta è una maniera molto frequente per scaricare persone e industrie considerate meno efficienti.

 

D. N.: Non vedo l’attuale crisi economica e politica come un’enorme sconfitta dei sistemi alla loro base. La considero il risultato prevedibile ed inevitabile della corruzione e dell’egoismo che pervade in gran parte la vita, a prescindere dalla posizione politica, economica o filosofica.

Sì, abbiamo bisogno di una riforma. Sì, è tempo che l’industria pensi a mettersi al servizio della gente nel lungo termine, il che significa i clienti, i dipendenti, le comunità locali, e la società intera. Sì, dobbiamo porre fine ai guadagni economici a breve termine a discapito di stabilità e sostenibilità. Abbiamo bisogno di un sistema economico maggiormente radicato nelle vere necessità e nel comportamento umani e sociali piuttosto che nella elegante ma ininfluente matematica tanto cara alla comunità finanziaria. Dobbiamo garantire la sopravvivenza della terra e delle sue risorse.

 

B. S.: Beh, un’emergenza finanziaria è una tipologia di emergenza particolare. Entrambe le guerre mondiali del XX secolo sono state tremende emergenze di ampissima portata, eppure entrambe hanno accelerato la tecnologia – certamente non l’hanno rallentata. Se il mondo degli affari sta crollando, è possibile prevedere che una grande quantità di energia creativa si riverserà nelle tecnologie non commerciali nel settore pubblico e in quello culturale. Settori profondamente trascurati, a cui farebbe bene un’attenzione localizzata.

Una crisi finanziaria è una crisi molto modesta. Una “crisi massima” sarebbe una guerra termonucleare. Non c’è nulla di massimo in questa crisi.

 

L. I.: Le grandi crisi possono rappresentare anche grandi opportunità di cambiamento: sapete indicare qualche segnale di speranza?

 

B. S.: Beh, sì, certo. Per secoli, India e Cina sono state società oppresse e devastate dalla povertà, caratterizzate da una forte sovrappopolazione e scarsità di risorse. Negli anni Sessanta sarebbe stato logico disperarsi per le loro prospettive future. Eppure, a 50 anni di distanza, la Cina e l’India sembrano particolarmente vivaci.

Non direi che sia nostro dovere sperare, ma la disperazione è una forma di arroganza. La disperazione può essere controproducente, una cinica copertura di ciò che dovrebbe essere in realtà sincero sconcerto. Non abbiamo la capacità di capire esattamente cosa succederà in futuro, ma sarebbe stupido partire dal presupposto che gli eventi siano necessariamente negativi. Potremmo esserne piacevolmente sorpresi.

 

D. N.: C’è sempre speranza. Le crisi rappresentano sempre delle opportunità. Ora i problemi più gravi sono esposti alla luce del sole. Sfortunatamente le stesse persone la cui avidità e il cui opportunismo ci hanno portati qui non sono ancora uscite di scena, e a volte sono ancora al potere. Ma in effetti questo potrebbe essere il momento per operare un cambiamento significativo, volto alla sostenibilità, alla sostanza e alla qualità, per contrastare avidità ed arroganza. La lungimiranza arrecherebbe a tutti noi un grande beneficio.

 

B. S.: Chiaramente la nostra società non è sostenibile. Necessita di un cambiamento rapido e gravoso. Lo status quo era destinato a morire, perciò non perdiamo molto a causa della turbolenza finanziaria. Potremmo ritrovarci in un mondo inimmaginabile per gli standard attuali, ma più sostenibile di qualsiasi mondo io abbia conosciuto di persona.

 

D. d. K.: Per quanto riguarda la possibilità che la new tech ci tiri fuori da questo marasma, senz’altro. Stiamo assistendo ad una gara tra due ordini di cultura, quella basata sul petrolio e quella basata sugli elettroni. Il petrolio, in tutte le sue forme, fa parte dell’era meccanica, che può essere tollerata dall’ambiente solo in piccole dosi, ad esempio – tranquillamente – nell’artigianato. Ma l’industrializzazione sfrenata è disastrosa per l’ambiente. Non solo l’elettricità, nella sua forma digitale, smaterializza parzialmente molti processi associati alla maggior parte delle industrie, ma offre anche un continuo aggiornamento sui danni all’ambiente causati dai processi industriali. Il pericolo è reale. Solo le persone dalla mentalità industrial-meccanica lo negano. Ma le altre iniziano ad avere un quadro della situazione. La sostenibilità era una parola inesistente vent’anni fa. Oggi significa business. E la tecnologia può contribuire. Non è solo la tecnologia Verde ad essere efficace. Letteralmente, la gara è tra le forze di distruzione e quelle di guarigione. Personalmente sono certo che Internet sia un processo planetario auto-terapeutico che finirà per avere la meglio. Basti guardare Obama. E’ figlio di Internet e non sarebbe stato eletto se non fosse per i blog, Twitter e Zuckerberg. Obama è la persona che ci può far passare dal mondo del petrolio e del terrore a quello dei network e della pace.

 

B. S.: Vaclav Havel non aveva ovvie ragioni per mostrare speranza all’inizio degli anni Ottanta, eppure dichiarò: “La speranza è uno stato che appartiene alla mente, non al mondo. La speranza, in questo senso profondo e potente, non è come la gioia delle cose che funzionano, o la volontà di investire in aziende che danno evidenti segni di imminente successo, ma piuttosto una capacità di lavorare per qualcosa perché è in sé buona”.

La disperazione non guarisce il panico. La medicina per il panico è l’azione. Ci sono cose che possiamo fare che hanno un senso a prescindere da come andrà a finire. Dovremmo almeno tentare.

 

D. d. K.: La speranza, naturalmente, è che norme migliori (design migliori) produrranno garanzie superiori nell’intera filiera di prodotti e servizi, incluso un genuino interessamento per la questione ambientale, anziché servire esclusivamente gli interessi degli investitori.

 

D. N.: E’ tempo di applicare l’approccio mentale del design alle crisi del mondo, di pensare l’impensabile. Se le borse del mondo limitassero la vendita di un titolo fino ad almeno 5 anni dall’acquisto? Se i bonus e i premi nel mondo industriale e politico si basassero sulle prestazioni a lungo termine, magari perfino su decenni (così da ripercuotersi sui piani pensionistici, non sul tenore di vita attuale)? Se tutte le persone potessero avere una fetta della torta, non solo i massimi dirigenti? E se…?

 

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