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Architettura vs design. Tra iconismo e produzione

Architettura vs design. Tra iconismo e produzione

Spartaco Paris

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Il testo indaga il fenomeno di un sempre più esteso territorio ed interesse occupato dal design, parallelo ad una riduzione dell’architettura da arte civica ad emulatrice di alcuni fenomeni storicamente propri del prodotto. Indagando la superficie dei fenomeni, l’iconismo dell’architettura contemporanea sembra essere la risposta necessaria imposta dal mercato e il punto di contatto principale con il design. Ma altri sono gli aspetti che possono legare l’architettura al design, e vanno indagati nel campo della produzione.

#icona #riduzione #analogia #immaginazionecostruttiva #architetto/designer

Provando ad individuare, al di là di ogni steccato ideologico divisivo, alcuni punti di contatto tra l’architettura e il design contemporanei, è possibile sottolinearne due di segno opposto. Mentre il territorio di riferimento del design si va estendendo in varie direzioni, ampliando i propri confini attraverso le contaminazioni con l’arte, l’artigianato, le arti visive e applicate e la produzione industriale, quello dell’architettura sta riducendo il suo specifico ruolo civico. Per assecondare le leggi di un mercato di consumo, sembra sempre più destinato ad assecondare la tendenza, iniziata a metà degli anni Novanta, a produrre edifici-manifesto, legati prevalentemente alla rapidità e pervasività della cultura mediatica e delle immagini. Le riviste-magazine raccontano un mondo costruito da rarità spettacolari e l’immagine-icona sembra essere la chiave di ogni architettura capace di “lasciare il segno” per un rapido e spesso effimero successo. Il primo punto di contatto, più palese e allo stesso tempo problematico, tra architettura e design, sta proprio in questa tendenza all’iconismo. La produzione di forme-icona, dotata di un forte carattere di originalità, che nel caso del Design Italiano ha contribuito a determinarne il successo, è una risposta in molti casi conseguente ad una carenza di sviluppo tecnologico. Laddove non è possibile lavorare sull’innovazione tecnologica di un prodotto oppure su quella tipologica, funzionale, strutturale dell’architettura, la prospettiva di lavorare sulla forma del “guscio” degli artefatti, sulla sua forma-immagine, sembra essere l’ambito prevalente del progetto. Pensiamo alla famosa Valentine di E. Sottsass Jr. in cui la competizione con le nuove tecnologie elettroniche giapponesi fu data per persa, mentre la forma e il colore della scocca inmateriale economico, la semplicità tecnica e la campagna di comunicazione, furono le chiavi di un successo mediatico, e non di mercato, di un oggetto-icona.
Nel campo dell’architettura, i tempi della produzione, dell’uso e del ciclo di vita deimanufatti sono, come ci insegna la storia, proiettati in un’estensione temporale lunghissima, ben diversa rispetto ai prodotti di consumo. Recentemente, nel caso dei più importanti edifici icona contemporanei, l’esigenza di costruire un rapido successo mediatico e di consenso dell’opinione pubblica, ha preferito la novità e la spettacolarizzazione delle architetture, piuttosto che la durata e la sobrietà economica e formale. Il caso dello stadio “nido”, icona delle Olimpiadi del 2006, con grandi problemi di degrado dovuti alla corrosione dell’involucro in acciaio, dopo solo pochi anni dalla sua costruzione e messa “in scena” mediatica, racconta bene il primato dell’architettura dell’immagine rispetto a quella della sua storica permanenza. E le immagini sono prevalentemente costruite attraverso l’estro, il gesto dell’architetto-designer. Così l’architettura tende a produrre oggetti-icona, siano essi una piccola pensilina dell’autobus, un edificio di rilevanza pubblica un museo o un pezzo di città. Se pensiamo ai più recenti grattacieli realizzati nei centri nella nuova economia capitalista, il grattacielo SWFC a Shangai, o la torre Khalifa di Dubai,ma anche la stessa “Shard” a Londra, lo stadio di Pechino o lo stesso Auditorium parco dellaMusica a Roma, la capacità di diventare icone delle città si collega non solo alla scontata competizione sull’altezza, ma anche alla “riduzione” di questi edifici a facili sintesi formali di se stessi, sia nella loro concezione che nella loro comunicazione e rappresentazione nelmondo: allora nascono e generano un’empatia collettiva le apposizioni-titolo dell’edificio, con analogie ad oggetti o morfemi noti a tutti, come se il destino dell’architettura-design sia quello di essere riconoscibile attraverso forme scultoree, o forme-logo eteronome: nasce quindi il grattacielo “cavatappi”, il grattacielo “trifoglio”, lo stadio “nido”, la nuvola, la farfalla, la vela, le testuggini, fino alla “scheggia” di Londra, ai boschi in verticale, e agli ultimi bizzarri padiglioni manifesto per l’imminente expo. Ciò è sempre stato un fenomeno intrinseco, oggi ancora in atto, di gran parte prodotti di design che cercano la loro originalità non solo con le forme, ma anche con il titolo e la forza iconica, come quella dello stilista di moda, del nome dei progettisti. Nel ’73 Tafuri[1] profetizzò che il mercato avrebbe soffocato qualsiasi utopia del progetto di architettura. In un contesto fortemente ideologico e “politico”, consigliava di continuare a mantenere questo spirito utopico, di non piegarsi alla pura legge del mercato, cosa che non è avvenuta, per cui si è creata una “esclusiva” lista di architetti archi-star capaci di stare in queste regole. Recentemente la chiave dell’ecologia, anche interpretata in chiave “pop” e rapidamente metabolizzata dal mercato, ha rappresentato un’opportunità per rendere più accettabile e condivisibile dalla collettività la tendenza ad una spettacolarità autoreferenziale dell’architettura contemporanea.
Non è casuale che Rolf Fehlbaum, patron di una delle fabbriche più importanti del mondo per la produzione di arredi, sia anche un appassionato di arte contemporanea e architettura e sia divenuto “collezionista” di architetture icona, assimilati a pezzi unici di design. Queste rarità sono state progettate per lo stabilimento di Weil am Rhein a partire dagli anni Novanta dagli architetti, che anche a partire da quelle esperienze sono divenuti, e hanno contribuito a creare, la figura stessa dell’archi-star. Ma allo stesso Felhbaum ha continuato a coltivare e a rispettare il tentativo, visionario per molti aspetti, illuminista per altri, di unire architettura, arte e industria. “Nella tradizione delMovimentoModerno, c’è l’insana idea che puoi cambiare il mondo con sedie, tavole, divani e lampade. Tutti possono dire che è una cosa ridicola, ma noi crediamo a ciò e lavoriamo in questa direzione”[2]. Tra le sue collezioni colte, particolarmente emblematica quella di oggetti, prototipi e artefatti di Jean Prouvè, emblematico progettista che credeva in un rapporto inscindibile tra produzione industriale e architettura, che ci porta a ragionare sul secondo punto di contatto tra architettura e design.
“Il n’y a pas de différence entre la construction d’un meuble et d’une maison”[3] era una delle affermazioni di Prouvè, testimonianza di una visione della modernità che non potesse prescindere dalla necessità di un’integrazione tra istanza progettuale e produzione industriale. La sua principale e antesignana intuizione, delusa dalla sua vicenda professionale, stava proprio nella immaginazione costruttiva, come complessa relazione tra architettura e design. L’assoluto controllo della tecnica era una condizione di un pensiero industriale intorno al progetto. L’esperienza di Prouvè, destinato suo malgrado a divenire consulente di molti importanti progettisti, ci mostra i limiti degli specialismi e la frattura sempre più netta, che ancora oggi attraversiamo pienamente, tra le diverse professioni che partecipano alla realizzazione dell’edificio e della inconciliabile separazione tra architetto, ingegnere e costruttore, che una volta erano riuniti dalla figura del Baumeister.

Questa progressiva separazione del lavoro dell’architetto dal sistema della produzione industriale e la necessaria segmentazione dei saperi e dei mestieri sono elementi di fragilità dell’architettura contemporanea; dall’altro però, come molti anticipatori capiti dopo, l’esperienza di Prouvè ci racconta dell’attualità dell’architetto-designer e del successo di una nuova unione del progetto e produzione. Da qualche tempo, infatti, in modo eclatante, assistiamo al fenomeno degli architetti italiani che dal mondo del design approdano all’architettura, ridisegnando una nuova unità tra due mondi che spesso in Italia si tende a separare. Negli spazi sempre più stretti in cui l’architettura italiana si rappresenta nel mondo, non sorprende dunque il fatto che alcune figure provenienti dal territorio del Design stiano progressivamente occupando il campo dell’architettura: da Mario Bellini a Michele de Lucchi fino ad Antonio Citterio, per citare i casi più eclatanti, architetti che hanno nel tempo costruito la propria notorietà attraverso progetti legati al mondo della produzione industriale. Questo fenomeno può essere spiegato attraverso due ordini di ragioni. La prima è strettamente connessa con la comunicazione e l’informazione del design, grazie alle quali ancora oggi nel mondo ci è riconosciuto un primato italiano sulla “custodia” della bellezza dell’habitat, legato sì alla nostra storia, ma anche alla capacità di trasferire nell’abitare, fatto di interni e delle sue suppellettili, proprio quell’aspirazione umanistica sopra descritta da Fehlbaum. Storicamente questo compito è stato assolto dalle riviste del settore che hanno fortemente influito, e non solo documentato, nel definire le linee della trasformazione dell’ambiente costruito dall’uomo e dei suoi artefatti. Ciò avviene oggi con i magazine generalisti e altri media più pervasivi, in cui design è la parola magica. Questo per quanto riguarda la comunicazione e l’informazione.Ma il secondo ordine di ragioni è strettamente connesso con la produzione, in cui il rapporto tra architettura e design si differenzia. Oggi questi architetti-designer, che si occupano, in modo sempre più rilevante, di architettura, attraverso interventi anche a scala urbana, hanno sviluppato, proprio all’interno dell’esperienza professionale del disegno industriale, competenze elevate nel campo delle tecnologie di produzione e gestione di processi progettuali e realizzativi complessi. Questa capacità pragmatica, “immaginazione costruttiva” per dirla con Prouvè, trasferita all’architettura e al suo esigente recato internazionale, è forse più importante della mera riconoscibilità della “griffe” per spiegare le ragioni di questo fenomeno. Le modalità di produzione dell’architettura “internazionale” si confrontano con tecniche di progettazione, controllo, e previsione sempre più complesse. La forma finale è il risultato di una grande capacità di sintesi poetica che non può prescindere da una grande capacità organizzativa e conoscenza delle tecniche e dei modi di produrre, anche artefatti singoli, come l’architettura. In questa direzione può essere vista, senza antagonismi, una nuova relazione virtuosa tra il territorio dell’architettura e quello del design.

(1) Tafuri, M., (1973). Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Bari: Laterza.
(2) Fehlbaum, (2011). “In the tradition on Modern Movement there is the insane idea that you can change the world with chairs, tables, sofa, lamps. Everybody could say it is seems ridiculous, but we believe it and we work in this way.” Intervista per la mostra “Prouvé Raw Edition”, Vitra Museum, Weihl am Rhein.
(3) Huber, B., Steinegger, J. C., (1971). Jean Prouvé. Une architecture par l’industrie.Architektur aus der Fabrik. Industrial Architecture, Basel: Les Editions d’Architecture Artemis Zurich, pp.98, 108, 120, 142.

Bibliografia

¶ AA. VV, A Passion for Jean Prouvé. The Laurence and Patrick Seguin Collection. Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Galerie Patrick Seguin, 2013.
¶ Chaslin, F. (1983). Il grande lattoniere Jean Prouvé, in Rassegna, “Il disegno dei materiali industriali/The Materials of Design”, n.14/2, giugno 1983, Bologna.
¶ Huber, B., Steinegger, J. C., (1971). Jean Prouvé. Une architecture par l’industrie. Architektur aus der Fabrik. Industrial Architecture, Basel: Les Editions d’Architecture Artemis Zurich.
¶ Tafuri, M., (1973). Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Bari: Laterza.

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