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Open source e proprietà intellettuale. Aprire o difendere?

Open source e proprietà intellettuale. Aprire o difendere?

Carla Langella

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La diffusione dei nuovi protocolli collaborativi ed opensource nell’ambito del design, ha determinato la nascita di nuovi territori di condivisione e collaborazione all’interno dei quali si incontrano individui, saperi e attività differenti. Il nuovo paradigma ha dimostrato, prima negli ambienti software e successivamente anche in quelli hardware, di essere in grado di rendere i processi di innovazione e di problem solving più rapidi ed efficaci.Alla luce della rivoluzione in corso, che ha visto nascere iniziative di grande impatto mediatico come Thingiverse, Appropedia, Instructables, Open Design e Open Materials, i concetti di brevetto e di difesa della proprietà intellettuale, intesi in senso tradizionale, vengono messi in crisi. Da un lato i designer tendono a cavalcare l’onda dell’approccio open per poter accedere alle nuove opportunità di cooperazione ed alla visibilità che ne deriva; dall’altro sono frenati dal timore che non proteggendo opportunamente le proprie idee possano rischiare di vederle poi sviluppate da altri.
Dunque condividere o proteggere? questo è il problema nell’era opensource.

#open source #proprietà intellettuale #brevetto #condivisione #innovazione

L’innovazione condivisa
Il diffondersi delle comunità creative e del paradigma open source ha generato in molte aree del progetto nuove e diverse forme di innovazione, in cui l’apertura verso l’esterno e la generosità collaborativa permettono il moltiplicarsi di interazioni e l’accesso a nuovi canali di contaminazione e fertilizzazione delle idee. Nell’universo del software l’approccio open source, introdotto nella seconda metà degli anni ‘90 da Eric S. Raymond, Tim O’Reilly e Larry Augustin come alternativa alla tradizionale protezione offerta dagli strumenti di proprietà intellettuale, ha raggiunto un livello di sviluppo molto avanzato . Nel corso degli ultimi venti anni sono stati definiti diversi gradi e forme di “apertura” che si esprimono attraverso formule come: copyleft , shareware o freeware , modelli alternativi di esercizio dei diritti intellettuali secondo cui il detentore, attraverso specifiche licenze, indica le libertà e i limiti concessi agli utilizzatori e le relative possibilità di intervento . Quello del codice open è un ambito ormai consolidato che ha dimostrato come i modelli condivisi siano in grado di favorire il superamento, in termini di rapidità evolutiva, accessibilità e flessibilità dei limiti e delle inefficienze dell’approccio puramente proprietario al diritto d’autore.
Eric S. Raymond, attivista delle “crociate” per il software libero, ha coniato la Linu’s Law che afferma: “given enough eyeballs, all bugs are shallow”: quanti più utenti sviluppatori hanno modo di testare il software, tanto più ampio ed efficace sarà il processo di verifica della sua qualità. Una sorta di evoluzione darwiniana accelerata dalla scala della condivisione, un processo di trial and error che si auto-replica in modo virale portando a provare il prodotto in molteplici condizioni e contesti. Il vantaggio evolutivo porta a bilanciare i rischi e la riduzione dei diritti proprietari degli sviluppatori iniziali, che pur rinunciando spesso al loro compenso economico diretto possono beneficiare di vantaggi indiretti come la possibilità di accedere gratuitamente ad un processo di controllo del proprio lavoro da parte di una comunità di professionisti esperti ampia e partecipe.
Più controversa sembra essere la dicotomia che nasce dall’incontro tra i modelli di condivisione aperta e i principi tradizionali di proprietà intellettuale in ambiti diversi dal software caratterizzati da una forte componente di innovazione “concreta” come le biotecnologie, i prodotti di design, gli utensili o i macchinari. Uno dei casi più significativi di contrasto tra l’approccio collaborativo e la chiusura dell’interesse privato della proprietà intellettuale è stato lo sviluppo del Progetto genoma umano, progetto di ricerca, denominato con la sigla HGP (Human Genome Project), iniziato negli Stati Uniti nel 1990 e concluso nel 2000, con l’obiettivo di conoscere e mappare la sequenza dei geni della specie umana. Il HGP viene considerato il primo grande progetto di big science condotto in ambito biomedico che ha coinvolto migliaia di scienziati in decine di laboratori diffusi in tutto il mondo, impegnati contemporaneamente nella decodificazione della sequenza completa dei 3 miliardi di basi nucleotidiche che compongono il patrimonio genetico della specie umana. Il progetto è stato oggetto di grande attenzione da parte dell’opinione pubblica sia per le sue implicazioni mediche ed etiche che perché ha visto la competizione tra un consorzio pubblico, orientato alla condivisione dei dati per consentire l’accesso libero a tutti i membri della comunità scientifica impegnati nel progetto, e un’azienda privata, la Celera Genomics di John Craig Venter, interessata invece a proteggere i risultati scientifici con brevetti, consentendone soltanto l’accesso a pagamento. L’impegno degli scienziati orientati all’open source e il coinvolgimento del mondo politico e dell’opinione pubblica ha portato il progetto pubblico a prevalere con un importante risultato di facilitazione e riduzione dei tempi di sviluppo del progetto. L’esempio del progetto genoma ha fatto risuonare il principio della forza dell’open source nel favorire e rendere più rapidi i processi di innovazione nei progetti con forti ripercussioni sociali, legati a temi di utilità pubblica come la salute e la qualità della vita.

Open Minds
Nell’ambito del design i confini tra interesse pubblico e interesse privato, tra condivisione e protezione, sono spesso labili e sfuggenti e rendono la tematica decisamente complessa. Alla fine degli anni ’90, sulla scia della diffusione del concetto di open source inteso come “software libero” Sepehr Kiani, Ryan Vallance e Samir Nayfeh indagarono sulle opportunità che i progettisti potessero beneficiare di politiche di open source anche per la componente hardware dando il via alla nascita della Open Design Foundation (ODF) , organizzazione non-profit volta a sperimentare i concetti di condivisione delle innovazioni e delle conoscenze nello sviluppo di nuovi prodotti e macchinari industriali.
L’Open Design si fonda sulla co-operazione tra più individui aggregati in comunità creative per la creazione di un oggetto e trova un largo riscontro soprattutto in progetti di natura sociale in cui l’interesse pubblico valica l’interesse commerciale come quelli orientati a sviluppare nuove tecnologie sostenibili o dedicati alle comunità fragili e ai paesi in via di sviluppo. L’Open Design si propone anche come strada utile a costruire un frame collaborativo in cui sviluppare progetti e tecnologie avanzate che richiedono grandi investimenti che le aziende o gli enti interessati non potrebbero sostenere singolarmente . Alcune organizzazioni come ad esempio Thingiverse, dedicata alla condivisione di disegni stampabili 3D o Appropedia, sistema open source di tecnologie appropriate, e Make: Projects Furniture Category, piattaforma che raccoglie progetti di open design stanno collaborando alla costruzione di un repertorio di design open source centralizzato per favorire processi di innovazione co-generati.
Iniziativa analoga, caratterizzata da un grande potenziale di attenzione da parte della comunità del design, è openmaterials.org fondata da Catarina Mota e Kirsty Boyle nel 2009 con l’obiettivo di proporre una piattaforma su cui condividere esperienze, sperimentazioni e strumenti relativi a nuovi processi e nuovi materiali in un’ottica open source. In openmaterials i designer propongono, sotto il marchio Creative Commons, le loro “ricette” attraverso documenti, immagini e video tutorial volti a consentire di ripetere il processo ed, eventualmente, incrementarlo per poi sottoporlo nuovamente alla comunità. La piattaforma, in questo modo, acquisisce gli strumenti, le conoscenze ed il bagaglio di esperienze utili a crescere sempre più rapidamente, rendendo l’open source una preziosa modalità di promozione e comunicazione di idee e di persone, ma anche una opportunità per diverse realtà culturali e geografiche di reinterpretare le innovazioni proposte in versioni “locali” molto specifiche, concepite in funzione delle singole culture materiali.
I progetti proposti rientrano in un contesto DIY, (Do It Yourself) volto a realizzare piccole serie o a sperimentare nuove dimensioni espressive, anziché orientato a convergere in sviluppo industriale competitivo. Anche in questo caso la rinuncia alla protezione della proprietà intellettuale in senso tradizionale viene equilibrata dalla visibilità, dalla possibilità di depositare e prelevare un numero sempre più ampio di nuovi protocolli materici e dall’opportunità di interagire con competenze differenti per lo sviluppo dei nuovi materiali (designer, chimici, artisti, fisici, ingegneri, cuochi, ecc…), altrimenti difficili da coinvolgere o da raggiungere. In tempi di crisi una grande visibilità può rivelarsi un ottimo trampolino di lancio ma va preventivato il rischio dell’imitazione dunque l’opportunità di proteggere la proprietà intellettuale dell’idea.

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La crisi del brevetto
I grandi numeri della rete fanno si che il vantaggio della visibilità si traduca spesso anche in una maggiore opportunità di attrarre sostegno economico. Ma il dubbio è: quanto una azienda o un finanziatore possono essere frenati nella scelta di sostenere un nuovo prodotto che sia stato già condiviso in un contesto pubblico, dunque difficilmente proteggibile con i metodi tradizionali? Per ottenere un’alta protezione riconosciuta legalmente è necessario ricorrere alle procedure di registrazione “convenzionali”. In Italia le categorie di registrazione sono diverse: il marchio, che protegge simboli o segni suscettibili di essere rappresentati graficamente; il brevetto di invenzione, che protegge le nuove idee suscettibili di applicazione industriale e nelle quali si palesa una attività inventiva; il modello di utilità, che include trovati in grado di conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego di oggetti di uso o di parti di essi; il disegno/modello, che fa unicamente riferimento agli aspetti estetici o decorativi di un prodotto e il copyright che protegge le espressioni artistiche.
Con l’affermarsi del principio di condivisione della conoscenza, prima nel mondo del software e poi anche in quello dell’hardware, i concetti di brevetto e di difesa della proprietà intellettuale appaiono, per molti versi, desueti. I brevetti, per come sono attualmente concepiti, rischiano di interporre tra i progettisti e lo sviluppo di innovazioni una serie di barriere, difficili da valicare soprattutto per i più giovani. Barriere economiche, dovute ai costi elevati di registrazione; barriere temporali, legate sia ai tempi richiesti dalla scrittura del brevetto che dal processo di esame; barriere culturali, poiché la compilazione di un brevetto richiede linguaggi e strategie specifici oltre che la consulenza di esperti; ed infine barriere di comunicazione, dovute al fatto che per depositare un brevetto è indispensabile non far circolare immagini e informazioni sul progetto prima del deposito. Tutto questo contrasta con l’esigenza dei designer di cercare la massima visibilità possibile, soprattutto attraverso i loro progetti più brillanti e innovativi, per promuoverli e trovare dei partner che possano svilupparle. Nell’era della Open Innovation i progettisti iniziano ad intravedere l’opportunità di realizzare le loro idee attraverso nuove strade come: rivolgersi ai venture capital, agli incubatori d’impresa che investono nelle idee, ai business angels, alle competizioni per startup, ai premi per l’innovazione, alle piattaforme di crowdfunding come Indiegogo e KickStarter o ai contest di crowdsourcing .
Per poter accedere a tutte queste nuove opportunità sarebbe necessario brevettare prima di intraprendere qualsiasi iniziativa, ma questo significa essere costretti ad estendere considerevolmente i tempi di diffusione e comunicazione e investire in modo spesso anche ingente su qualcosa di cui non si conosce ancora il valore effettivo, rischiando che altri propongano qualcosa di simile utilizzando magari l’istantaneità della rete. Diversamente nei progetti destinati all’auto-produzione DIY, alle serie limitate, ai circuiti di innovazione sociale o al mercato delle gallerie, l’approccio open source si propone, il più delle volte, come un vantaggio, poiché in questi ambiti il successo di un prodotto è fortemente legato alla sua reputazione che viene “alimentata” dalla replicazione. In questa seconda ipotesi si può, comunque, pensare ad altre forme di prevenzione di possibili controversie .

La protezione della proprietà intellettuale in Italia ed all’estero
Il contesto economico attuale caratterizzato da una crisi profonda ma mutevole e da una consapevolezza sempre più diffusa del valore competitivo dell’innovazione rendono le tematiche di tutela e valorizzazione della proprietà industriale aspetti di grande importanza per il rafforzamento delle imprese e per la crescita economica dei paesi. Lo testimoniano le battaglie legali di Apple contro Samsung, o di Dyson contro Hoover . L’esigenza di stimolare la crescita degli investimenti nelle attività di ricerca e sviluppo, e di favorire l’accesso a un sistema di tutela della proprietà industriale più semplice, economico, coerente ed uniforme in ambito internazionale, sta conducendo, in questi ultimi anni ad una revisione degli apparati legislativi legati alla proprietà intellettuale e industriale sia in Europa che negli Stati Uniti.
Sulla base del Regolamento n. 1257/12 a partire dal 1 gennaio 2014 sarà operativo un brevetto unico europeo che potrà essere depositato presso l’Ufficio europeo dei brevetti (Oeb), e, se approvato, fornirà una protezione uniforme e di pari efficacia in tutti gli Stati membri partecipanti che eviterà al richiedente di pagare le spese di traduzione e registrazione dei diritti in ciascuno dei paesi dove si intende proteggere il brevetto. In caso di contenziosi la procedura giuridica sarà unica e semplificata e verrà gestita dal nuovo Tribunale unificato dei brevetti comunitario . Il brevetto unico europeo avrà un effetto unitario in 25 stati UE . Si stima che l’implementazione di tale modello unificato potrebbe portare ad una riduzione degli oneri di brevettazione circa del 60/70% rispetto a quelli attuali.

La promessa dell’Open Patent
Il design ha difficoltà a collocarsi in un ambito specifico di tutela perché spesso non è solo una innovazione formale ma anche funzionale e concettuale. Il problema è che se si classifica come disegno/modello il grado di protezione viene limitato all’aspetto formale, mentre il deposito di una nuova funzionalità o di una nuova tipologia di prodotto rischia di non essere sufficientemente protetto dal punto di vista del disegno. Diversamente registrando un nuovo prodotto di design come modello di utilità o come invenzione specificandone anche le caratteristiche formali e costruttive si rischia di “bloccare” la correlazione tra la nuova funzione e l’aspetto esteriore riportato nella documentazione grafica. Molti progettisti scelgono, ad esempio, di non descrivere in maniera approfondita i materiali o le tecnologie utilizzate per non “cristallizzare” l’invenzione su una soluzione materica o tecnologica che può essere rapidamente superata in seguito al repentino mutare dello scenario dei materiali e delle tecnologie disponibili.
Per favorire l’innovazione nell’ambito del design sarebbe, invece, auspicabile la possibilità di registrare in modo più semplice ed economico le singole tappe del percorso evolutivo di un prodotto, man mano che esso avanza, con i necessari dettagli che potrebbero, poi, essere modificati o attualizzati nelle registrazioni successive per accelerare percorsi innovativi negli specifici settori produttivi. L’esigenza di prefigurare nuove forme di protezione sta spingendo le aziende più avanzate a proporre soluzioni in grado di delineare possibili orizzonti evolutivi. Google ha lanciato di recente l’iniziativa Open Patent Non-Assertion (OPN) Pledge, con l’obiettivo di garantire una nuova tipologia di protezione per alcuni prodotti basata sulla condivisione dei codici e dei contenuti dei brevetti stessi con le community di sviluppatori, produttori e progettisti. L’iniziativa prevede che gli sviluppatori dei brevetti che aderiscono si impegnino pubblicamente a non esercitare i diritti di privativa derivanti dai brevetti stessi, a meno che non vengano direttamente attaccati da azioni legali provenienti dall’esterno, dunque non siano costretti a dover esercitare il diritto di autore per replicare ad una accusa. Nel caso di Google, dunque, il concetto di open patent si applica a soggetti che hanno già depositato il brevetto. La cosa risulta in contraddizione perché è ben difficile che qualcuno decida di investire una grossa cifra sulla registrazione e successivamente di aprire il brevetto. Nonostante questo l’iniziativa di Google, per quanto rappresenti ancora una fase primordiale di un concetto di open patent costituisce un esempio prestigioso che può agire da incentivo ed esempio da emulare per altre aziende, anche di altri settori, al fine di favorire la nascita di nuove forme di innovazione aperta e condivisa, più etiche ed accessibili.
Per rendere più rapidi i processi di innovazione e co-evoluzione potrebbero nascere nuove modalità di deposito delle idee di tipo digitale, accessibili ed economiche, collocato sul web e con validità internazionale, in cui si possa stabilire, come avviene per l’open software cosa non può essere replicato e cosa, invece, si intende condividere liberamente di un determinato progetto. Nuove forme di open patent che non richiedano la registrazione preventiva e che possano costituire una prova di paternità intellettuale in caso di controversie. Sarebbe utile, infine, che i sistemi di protezione-apertura concepiti nel prossimo futuro possano essere modulari per poter essere implementati gradualmente; flessibili per poter aderire a diverse esigenze; aggiornabili per poter consentire un facile upgrade e adattabili alla complessità del mondo degli artefatti contemporanei e delle nuove modalità di progetto, rappresentazione e produzione.

Carla Langella | Ricercatrice di Disegno Industriale presso la Seconda Università di Napoli dove insegna Bio-innovation Design.
Dal 2006 ha fondato e coordina l’Hybrid Design Lab, laboratorio dedicato al rapporto tra design e scienza.
carla.langella@unina2.it

(1) Tapscott, D., &Williams, A. D. (2008).Wikinomics 2.0: La collaborazione dimassa che sta cambiando ilmondo. Rizzoli; Etas.
(2) Con il termine copyleft si individua un modello di gestione dei diritti d’autore che prevede che l’inventore, mediante un sistema di specifiche licenze, stabilisce e comunica ai fruitori le condizioni e le modalità di utilizzo, diffusione ed eventuale modifica dell’opera.
(3) Per shareware si intende una tipologia di licenza software che prevede la distribuzione libera e, generalmente, l’utilizzo per un periodo di tempo di prova variabile o delle limitazioni come, ad esempio, la stampa o il salvataggio di file.
(4) Il termine freeware viene utilizzato per indicare un software che viene distribuito gratuitamente.
(5) Aliprandi, S. (2007). Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d’autore. PrimaOra/Copyleft-Italia.it.
(6) Lindberg, V. (2009). Intellectual Property and Open Source: A Practical Guide to Protecting Code. O’Reilly.
(7) I dati venivano aggiornati e pubblicati quotidianamente sul web e questo ha portato a chiudere il progetto in tempi molto più brevi di quelli previsti, con una conseguente massimizzazione dei benefici sociali, tecnologici ed economici della ricerca. Nell’aprile 2003 il consorzio pubblico ha annunciato il completamento dell’intera sequenza del genoma umano come risultato di una collaborazione scientifica internazionale.
(8) http://www.opendesign.org.
(9) Van Abel B., Evers L., Klaassen R., Troxler P., (2011) Open Design Now :Why design cannot remain exclusive, BIS Publishers, Amsterdam.
(10) Secondo l’articolo 2585 del Codice Civile italiano «Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivomeccanico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali. […] ». Spesso la procedura di sottomissione è complessa, in particolare per i brevetti, e può essere utile richiedere l’assistenza dagli uffici delle camere di commercio, di professionisti specializzati o dell’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti che mette a disposizione degli utenti personale specializzato che offre supporto alle operazioni burocratiche ed alla compilazione dei documenti.
(11) Sloane, P. (2011). A Guide to Open Innovation and Crowdsourcing: Advice from Leading Experts in the Field. Kogan Page.
(12) Esistono, infatti, forme di protezione concepite ad hoc per il mondo del design, come quella proposta dall’ADI che offre alle imprese e ai progettisti per tutelare legalmente il loro lavoro la possibilità di depositare presso l’associazione, per un periodo di quattro anni e rinnovabile a tempo indeterminato, una copia della documentazione di progetto che può essere impugnata come prova in caso di contestazione sulla data di creazione o sulla paternità del progetto. Questo tipo di protezione non preclude in alcunmodo eventuali successivi brevetti, ha un prezzo ridotto per i soci e fa riferimento ad un ente di prestigio internazionale, ma non è riconosciuto dall’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti.
(13) Si ringrazia Daniela Savy, Ricercatrice di Diritto dell’Unione europea dell’Università Degli Studi di Napoli “Federico II” per l’apporto fornito sui temi giuridici.
(14) La causa riguardava la violazione del brevetto della tecnologia Dual CycloneTM e si è conclusa a favore di Dyson.
(15) Secondo l’Accordo sottoscritto il 19 febbraio 2013.
(16) Almomento non sono ancora parti dell’accordo Italia e Spagna che hanno contestato alcuni punti tra cui la scelta, ritenuta discriminatoria, di adottare solo tre lingue ufficiali (inglese, francese, tedesco).

Bibliografia

¶ Adams, S., & Adams, S. R. (2012). Information sources in patents. Walter de Gruyter.
¶ Anderson, C. (2013). Makers: Per una nuova rivoluzione industriale. Etas.
¶ Candelin-Palmqvist, H., Sandberg, B., &Mylly, U.M. (2012). Intellectual property rights in innovation management research: a review. Technovation, 32(9), 502-512.
¶ Dahlander, L., & Gann, D. M. (2010). How open is innovation?. Research Policy, 39(6), 699-709.
¶ Gaudenzi, A. S. (2012). Il nuovo diritto d’autore. La tutela della proprietà intellettuale nella società dell’informazione. Con CD-ROM (Vol. 7). Maggioli Editore.
¶ Huizingh, E. K. (2011). Open innovation: State of the art and future perspectives. Technovation, 31(1), 2-9.
¶ Krikorian, G., & Kapczynski, A. (Eds.). (2010). access to knowledge in the age of intellectual property. Zone Books.
¶ Mangini, P. A. G. F. V., & Spada, G. O. M. R. P. (2012). Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza. G. Giappichelli Editore.

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